mercoledì 22 agosto 2018

Dalla privatizzazione alla nazionalizzazione,forti dubbi che sarà la panacea che curerà tutti i mali


















Il treno delle polemiche sulle privatizzazioni è in ritardo (ovviamente)

di Alessandro Robecchi

La macchina del tempo esiste, è qui, funziona a meraviglia, la stessa meraviglia con cui si può leggere oggi un dibattito che andava fatto trent’anni fa, quello sulle privatizzazioni, sul meno-Stato-più-mercato, quello sui carrozzoni pubblici che, sostituiti dall’illuminata gestione dei privati, avrebbero dovuto diventare luccicanti carrozze di prima classe. Si potrebbe dire, pasolinianamente, “Io so”, ma non c’è bisogno di arrivare a tanto: basta un più modesto “io ricordo”. Ricordo molto bene (ahimé facevo già questo mestiere) le accuse a chi si opponeva alle privatizzazioni di tutto e di tutti. Le accuse di comunismo, di statalismo, di arretratezza e miopia riservate a chi si opponeva alle svendite di patrimoni pubblici e alle concessioni donate in allegria. Di contro, ricordo le odi al mercato che tutto sistema e tutto regola come per magia. C’è stato un periodo, nella nostra storia recente, in cui se solo ti azzardavi a dire che lo Stato doveva fare lo Stato e gestire i suoi beni (possibilmente con correttezza, senza assumere per forza i cugini dei cognati), venivi trattato come un VoPos della Germania dell’est posto a difesa del muro, un pericoloso comunista pronto a entrare nel Palazzo d’Inverno sfasciando i preziosi lampadari e sporcando i tappeti. Fu in quegli anni che si diffuse come l’epidemia di Spagnola l’uso indiscriminato della parola “liberale”. Tutto diventava liberale, così come tutto doveva diventare privato, e se qualcuno si metteva un po’ di traverso niente sconti: l’accusa terribile era quella di essere contro la modernità, reato gravissimo. “Statalista” suonava come “pedofilo”, come “brigatista”: pubblico ludibrio e risate di scherno. Non se ne fa qui una questione di schieramenti: destra e sinistra unite nella lotta, chi più chi meno, chi a suo modo, chi tentando di umanizzarlo e chi spingendolo al massimo dei giri, chi dicendo che andava regolato almeno un poco, chi diceva che era meglio lasciarlo libero e bello. Ma il pensiero unico di cui tanto si parla cominciò lì: il mercato non era una cosa discutibile, prendere o lasciare. Cadevano muri e ideologie, e ne rimaneva in piedi una soltanto: il mercato.

Ora che anche fior di liberali ammettono che “alcune privatizzazioni” sono state fatte male, in fretta, con l’ansia di far cassa e senza alcuna strategia o prospettiva storica, con pochi controlli, con un orribile consociativismo tra chi concedeva e chi prendeva le concessioni, non c’è da provare nessuna soddisfazione: i buoi sono scappati, la stalla è stata spalancata per trent’anni, chiudere le porte ora sarà probabilmente una pezza piccola su un buco enorme. E anche questa concessione all’evidenza rischia di sembrare furbetta e funzionale: si ammette che qualcosa è andato storto per affermare, in sostanza, che il disegno è giusto ma c’è stata qualche sbavatura.

Intanto il famoso mercato lo abbiamo visto in azione: in trent’anni ci ha regalato un paio di crisi durate dieci anni ognuna, un restringimento dei diritti (non ultimo quello di passare un ponte senza pregare tutti i santi), una precarizzazione di massa, la proletarizzazione dei ceti medi e tutto il resto che sappiamo. Il tutto accompagnato – in Italia – dalla vulgata (oggi si direbbe “narrazione”) che il pubblico era antico e il privato moderno. Poi, oggi, si trasecola apprendendo dagli schemini dei giornali che in Germania le autostrade sono pubbliche e gratuite, per dirne una, e nessuno si sogna, lassù, di pensare ai Land tedeschi come a repubbliche staliniste pronte a fucilare i dissidenti o a mandarli in Siberia. Oggi pare che si possa ricominciare a parlarne, ma il timore è che lo si faccia solo perché bisogna rimettere a posto i guasti dei famosi privati. Insomma, privato quando c’è da incassare e pubblico quando c’è da rimettere insieme i cocci.

DAL BLOG ALESSANDROROBECCHI.IT

Prendere atto della mostruosità delle privatizzazioni italiche è come sfondare una porta aperta,anche se non ci fosse stata l’ultima tragedia criminale a Genova,inciuci nauseabondi a iniziare dalla prima Repubblica,da Prodi e compagnia bella caimana,possono testimoniare di un Paese allo sbando.
I paragoni con la Germania non reggono,lì chi non paga le tasse viene considerato un delinquente,qui ci si vanta e viene visto diffusamente con ammirazione e nel caso venga pizzicato a rubare alla collettività,paga la decima parte del dovuto se gli va male.

Non sappiamo gestire le privatizzazioni,ma non sappiamo manco far funzionare la macchina statale,vedasi Pompei,e l’immensa cultura storica legata all’arte lasciata andare in malora o gestita in modo lassista,se le autostrade diventassero statali chissà se diventerebbero magicamente efficienti,sa com’è l’assumificio dell’amico tramite dirigenti o politici compiacenti è una consuetudine da queste parti.

Ovunque si cerchi di trovare una quadra ci sono solo grandi casini,e non si dica che è colpa della politica,siamo un popolo diffusamente scaltro che cerca di fottere il prossimo,la politica è e sarà la pessima punta di diamante di tutto ciò.

I.S.

iserentha@yahoo.it

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