martedì 14 gennaio 2014

Amarcord:Enzo Biagi intervista Gianni Agnelli




“Italiani migliori di chi li governa”

L’INTERVISTA DI ENZO BIAGI CON GIANNI AGNELLI: “IL MIO MESTIERE È STARE ACCANTO ALLA FIAT; L’OBIETTIVO CHE MI PONGO È LASCIARLA NELLA POSIZIONE PIÙ FORTE E COMPETITIVA POSSIBILE. SE OGGI L’ITALIA È UN PAESE MODERNO LO SI DEVE ANCHE A QUEST’AZIENDA”. L’ELOGIO DI LAMA: “È ROMAGNOLO E CON LUI SI DECIDE IN FRETTA”

di Enzo Biagi

Avvocato Agnelli, una volta suo nonno la portò in fabbrica e le disse: “Hai un nome ma il posto devi trovartelo. Io qui dentro i gradi li posso mettere sulla testa, ma l’autorità ciascuno deve conquistarsela”. È così?

Sì, è vero.

Lei l’ha ottenuta e in che modo?

Io rientrai dall’Africa, ero sottotenente e avevo 23 anni allora, mio nonno mi nominò vicepresidente della Fiat, non aveva altre scelte e voleva stabilire il principio della continuità. Credo di aver ottenuto la fiducia all’interno dell’azienda giorno per giorno, nei momenti difficili.

Certe decisioni la giustificano. Mai la Fiat aveva raggiunto tanta potenza, e un ruolo di dimensioni mondiali, come sotto la sua guida. Qualcuno dice che lei è il vero fondatore.

È un’assurdità. Mio nonno qualche volta mi confidò: ‘Tuo padre aveva le qualità per continuare, non per cominciare’. Al pioniere occorrono risorse immense. La gestione comporta caratteristiche diverse. Io ho avuto la fortuna di aver trovato una generazione di manager straordinaria. Ho goduto del vantaggio di venti anni di avviamento.

Lei ha avuto, come si dice, una giovinezza allegra e movimentata, un grande quotidiano scrisse che dal senatore aveva preso soldi e nome, e non il talento. Lesse quell’articolo?

No, non lo lessi, ma certamente da mio nonno ricevetti un’infinità di privilegi: su questo non c’è dubbio, ma anche molte responsabilità, presi tutti e due a piene mani.

Suo nonno morì nel 1945, penso che si sia sentito molto amareggiato, come vedeva il futuro della famiglia e dell’azienda?

Ricordo i funerali nel dicembre 1945. Torino era fortemente distrutta dai bombardamenti, e così anche le fabbriche che lui aveva fatto. Ricordo che partendo dalla città per Villar Perosa, il corteo funebre si fermò davanti a Mirafiori, non voglio dire che ci contammo, ma eravamo poche decine di persone. Pensando a tutto quello che aveva fatto nella vita, mi prese una tristezza enorme. Di fronte a Mirafiori il ricordo andò ai funerali di mio padre, dieci anni prima. C’erano tutti, tutta Torino, quasi tutta l’Italia era rappresentata, tutte le autorità. Pensai che le esequie, più che alla memoria di chi se ne è andato, sono un omaggio al potere di chi rimane, e misurai in quel momento la fine di quell’uomo a cui tutto era avverso, tutto gli era contrario. Fu la conclusione molto desolata di una vita.

Cosa è stato Valletta per la Fiat?

Valletta è stato l’uomo vicino a mio nonno, che lo ha sostituito quando era stanco verso la fine della sua vita, nel periodo dell’occupazione tedesca, in quei momenti difficilissimi, poi ha avuto le intuizioni e il coraggio per ricostruire. È stato per la Fiat un uomo straordinario.

E per lei?

Mi ha dedicato del tempo e mi ha insegnato molte cose; ha avuto molta pazienza, non mi ha chiesto troppo nei momenti in cui mi sarebbe stato più penoso, più difficile dare molto e mi ha sempre accordato piena fiducia.

Una volta lei ha detto: “Ho dovuto mandare via quelli che avevano fatto la Fiat”.

Nel 1966 assunsi la presidenza, Valletta aveva ottantadue-ottantatré anni, lui, da quel galantuomo che era, non se l’era sentita di mandar via parecchi capi che avevano passato i settant’anni e anche più. Il primo giorno da presidente gli dissi: ‘Caro professore, bisogna portare i quadri all’età giusta’. Così creai, in accordo con lui, un provvedimento che limitava le responsabilità esecutive a 65 anni. Quello volle dire togliere gli uomini che avevano collaborato con mio nonno, fatto con lui la Fiat, lo feci con grande dispiacere. Mi ricordo che chi mi rimproverò di questo fu Merzagora, che era presidente del Senato. Ma era inevitabile.

Lei ha mai pensato al giorno in cui se ne andrà?

No, io penso, se Dio me lo concede, di rimanere fino ai 75 anni, come da statuto, poi vedremo.

Chi dopo di lei?

C’è mio fratello Umberto, ci penserà lui.

Con quale partito lei si trova più d’accordo?

Da sempre solo con il Partito repubblicano.

Da cosa sono diversi i comunisti oggi da quelli degli anni Sessanta, Settanta?

Nel dopoguerra, forse anche in gran parte degli anni Cinquanta, avevano sempre in animo la possibilità di tentare quello che si chiamava il ‘ribaltone’, cioè di far fare all’Italia la fine della Cecoslovacchia e di altri paesi oltre cortina, questo era nella loro mente un obiettivo costante. Anzi, credo che ci sia un certo rancore per Togliatti che non glielo ha mai lasciato tentare. Oggi questo non esiste più, è un partito di tutt’altro genere. Non so ancora quale strada troverà, ma è tutt’altra cosa.

La dipendenza dalla Russia non c’è più?

Una percentuale che la gradirebbe è rimasta, ma dall’epoca di Berlinguer il distacco c’è stato.

Tra i suoi incontri ci sono sicuro gli uomini che più hanno contato e più contano al mondo. Chi ha suscitato la sua ammirazione, la sua antipatia o la sua delusione?

De Gaulle mi fece un effetto enorme: un modo di ragionare, un piglio, una maniera di esprimersi che mi colpivano, e poi quello che aveva rappresentato. Mi intimoriva. Kennedy è quello che ho conosciuto meglio. Aveva pochi anni più di me, c’era un rapporto personale, il padre rappresentava gli Stati uniti a Londra, e lui aveva studiato alla School of Economics, come tutti i cattolici irlandesi non amava gli inglesi, ma l’Europa la conosceva e la capiva. Tito, un uomo coraggioso, con una visione di politica internazionale non comune: si batteva a Cuba prima di morire, tra i non allineati, contro le posizioni di Fidel Castro e di Gheddafi. Di Reagan colpisce il garbo e l’estrema facilità nei rapporti: sia in quelli diretti, come attraverso il teleschermo, col grande pubblico.

Lei una volta ha detto che gli italiani sono migliori di chi li governa.

L’ho detto e lo penso ancora anche se è un po’ in contrasto con l’affermazione secondo la quale ogni paese ha il governo che si merita. L’intelligenza, la vitalità, la capacità di 55 milioni di cittadini non sono utilizzate al meglio dalla classe politica.

Forse le liste, con la struttura dei partiti non consentono le scelte giuste, o forse gli eletti non sono impiegati saggiamente quando arrivano alle Camere?

Mi hanno detto che la qualità delle persone è migliore di quello che si pensa, ma dal lavoro che fanno non risulta. Quindi c’è un difetto di organizzazione.

Che cosa non va?

Tante cose vanno, anche molto bene: la crescita, la spontaneità. Non funzionano le strutture, tutto quello che è al di fuori dell’iniziativa privata. E poi si ha sempre la sensazione che a un certo momento lo stellone d’Italia mette a posto le cose; magari il debito pubblico, e invece le scadenze arrivano, è inevitabile, ti prendono al collo.

Ha l’impressione che dalle altre parti ci sia più corruzione che da noi?

In Gran Bretagna e in Scandinavia è minima; nell’America Latina è immensa; nel Medio Oriente è media. L’Italia la porrei in una posizione intermedia.

Pensa che la sua azienda ne sia sempre rimasta fuori?

No, è evidente che non lo posso escludere, però è sicuro che in casa Fiat c’è un controllo efficiente, attento, e credo che funzioni molto bene.

Si parla di morale negli affari, nella vita: la morale cos’è per lei?

La definizione dell’etica è così difficile. Le dico la sola cosa che ricordo, non so se era di mio nonno: “Spiega alla gente che deve essere perbene, che c’è una linea, una correttezza da rispettare, e alla fine gli dici: ‘Tieni presente che è anche un buon affare essere onesti’’’.

Ci sono errori che lei si rimprovera, come uomo e come capo?

Certo ci mancherebbe altro. Aver scelto la persona non adatta per certi incarichi, ma soprattutto decisioni di affari o rapporti sindacali errati.

De Mita ha detto: “L’avvocato Agnelli dimentica di essere un capitolo della storia italiana, un capitolo noto che si chiama sviluppo automobilistico, emigrazione interna, speculazione sulle aree e organizzazione clientelare”. Che cosa c’è di vero, e che cosa respinge di queste accuse?

Prima di tutto non dimentico niente. La prima parte è vera: la storia della Fiat è quella della motorizzazione italiana. Nel dopoguerra la Fiat ha rappresentato l’emigrazione interna. Ora si tratta di vedere se era necessaria, se è stata eccessiva a ciò che serviva: qui qualche critica è possibile. Ma lo sviluppo nell’ordine è difficile, c’è sempre una percentuale di sconvolgimento. Per quanto riguarda la speculazione immobiliare, mi fa ridere, non è il nostro mestiere, non esiste. Per quanto riguarda la clientela, mi dica lei che bisogno o interesse abbiamo a procurarcela. Io personalmente ho un solo elettore: io stesso.

Una volta si diceva: quello che è buono per la Fiat è buono per l’Italia. Questo motto funziona ancora o lo aggiornerebbe?

Lo si rimproverava alla General Motors in America, poi per analogia lo hanno portato anche in Italia. Diciamo che se oggi l’Italia è un paese moderno lo si deve anche a questa Fiat. Ci può essere stato un contrasto temporaneo di interessi, ma alla lunga, la crescita della Fiat non può essere che un vantaggio per l’Italia.

E la Fiat ha ricevuto qualcosa dall’Italia?

Molto e molto dal Piemonte. I quadri su cui si è affermata escono da una borghesia piemontese, da una classe che veniva dai politecnici, dalle scuole militari: da un piccolo regno che aveva unito il paese. Poi c’è stato il contributo delle energie più interne, la vitalità dei lavoratori, la gente che è passata, l’accoglienza del mercato. Sì, la Fiat ha ricevuto molto.

Adesso che l’automobile è tutta nelle sue mani…

La più grossa concentrazione è stata fatta tra le due guerre. L’esistenza di aziende delle dimensioni di Lancia o Alfa Romeo era assurda: era più logico che finissero agli italiani che agli stranieri.

Chi è il sindacalista che le è piaciuto di più? Con chi si è trovato in sintonia?

È Luciano Lama: perché abbiamo la stessa età, perché è simpatico, perché è romagnolo, che aggiunge qualche cosa all’attrattiva, perché abbiamo preso decisioni in fretta, insieme, e forse qualcuna era anche sbagliata.Una volta ci incontrammo nei corridoi del “Corriere della Sera”:

credo non fosse una giornata felice per lei.

Già, andavo da Tassan Din. Avevo detto in un’assemblea una battuta: “Finiranno a fare la roulette russa”, o qualcosa del genere. Non volevo portare cattiva sorte. Ci fu un certo contrasto, allora il direttore era Di Bella, mi querelarono poi la ritirarono, non so per quale accorto. Infine scoppiò la vicenda della P2, e lei, Biagi, lasciò il giornale.

Non potevo lavorare in un giornale controllato dalla massoneria di Licio Gelli. Le grandi industrie mondiali hanno giornali?

C’è una presenza in quello che si chiama oggi il mondo della comunicazione. In Francia, un grosso gruppo, Matra, è padrone della casa editrice Hachette;la General Electric,in America,possiede la più importante rete televisiva, la Nbc; la Coca Cola puntava sulla Cbs, che poi è finita a un’impresa immobiliare. Nella filosofia delle diversificazioni possibili, le comunicazioni rientrano senza problemi. Purtroppo nel nostro paese, quando si pensa alla stampa o alla tv, si pensa solo all’influenza politica: fare eleggere sindaco il tale, fare confluire le preferenze su quell’altro, questo non va bene, non c’entra nulla con il mestiere di dare le notizie. Il settore delle comunicazioni è più in crescita di quello dei trasporti, entrarci è un affare.

Lei ha mai detto a un suo direttore: “Mi faccia questo piacere”?

Qualche volta, per qualcuno che aveva un figlio che era scappato, o per chi era impegolato in qualche pasticcio. Mi hanno supplicato: “Speriamo che nessuno lo pubblichi. Può dire qualcosa al direttore. Qualcuno se ne è già occupato a Roma, faccia qualcosa anche lei”.

Non ha mai domandato l’appoggio per qualche iniziativa?

Mai.

Il “Corriere della Sera” che cos’è per lei?

Un importantissimo quotidiano del mondo lombardo, che ha avuto delle disavventure, dei momenti difficili, due volte siamo stati chiamati a dargli una mano, e l’abbiamo sempre data senza nessuna ingerenza, e in collaborazione con altri. Una volta sono stato molto criticato perché ne ero uscito.

Lei farà televisione?

Credo che se ci si occupa di comunicazione, la tv sarà parte integrante, complementare della carta stampata. Posso sbagliare, ma penso che nel Duemila ciò avverrà fatalmente.

Si pone dei traguardi?

Il mio mestiere è stare accanto alla Fiat; l’obiettivo che mi pongo è lasciarla nella posizione più forte e competitiva possibile e nelle mani degli uomini più capaci.

Grazie avvocato Agnelli.

Grazie a lei, Biagi.



Una personale considerazione positiva verso l'intervista,è la dichiarazione che buona parte degli italiani sono migliori della casta politica da sempre esistente nel paese.

La seconda anche se non è appuntabile tra le righe,è stata l'influenza del gruppo torinese verso qualsiasi possibilità d'ingresso di altri marchi produttivi nel territorio,una possibilità che avrebbe potuto creare delle interessanti competizioni interne,la verifica di questi ultimi anni a riguardo della occupazione e produzione autoveicoli in Italia,cioè sparita,è sotto i nostri occhi.

per eventuali notifiche - iserentha@yahoo.it

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