giovedì 28 febbraio 2019

Lavorare e fare fatica a sopravvivere
















La battaglia sui salari: quando la sinistra era presente a se stessa

di Alessandro Robecchi

Qualche settimana fa, in questa rubrichina, ebbi l’ardire di parlare di salari. Lo feci un po’ imbizzarrito, ammetto, dal fatto che alcuni (Confindustria, Boeri e altri) notavano che molti italiani che lavorano prendono più o meno come il reddito di cittadinanza. Pareva dagli accenti, dalle sfumature, e a volte anche da affermazioni dirette, che ciò fosse gravemente lesivo del libero mercato che – prendendo un disoccupato una certa cifra – non avrebbe potuto comprimere ancora di più i salari. Una specie di concorrenza sleale tra disoccupati poveri e lavoratori poveri su cui i “poveri” imprenditori versavano accorate lacrime.Mal me ne incolse, perché venni subito apostrofato da Carlo Calenda che mi chiedeva (a me!) idee su come alzare i salari, che è un ben strano modo di intendersi esperti del ramo, un po’ come se l’elettrauto mi chiedesse col ditino alzato: “Beh? Come si monta questa cazzo di batteria? Me lo dica, non stia lì solo a criticare!”. Non fa una piega. Segnalo comunque che nelle settimane intercorse si sono ascoltati tuttidiscutere su come abbassare il reddito di cittadinanza, e nessuno su come alzare i salari, quindi diciamo così che a pensar male ci si azzecca.
Ora che il Pd affronta un congresso per decidere dove andare, non è male che qualcuno, là dentro, rifletta sul tema della rabbia. Un grande partito sa incanalarla, farne strumento di pressione, volgerla verso decisioni meno inique, mentre il Pd, per quello che si è visto e sentito, l’ha guardata crescere come la mucca guarda passare il treno, e in qualche caso fomentata. Dal 2010 al 2017 (governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) i salari reali sono calati del 4,3 per cento (fonte: Sole 24 ore), un dato che dice tutto, a proposito di incazzatura. Se volete sommare altri numeretti, che sono noiosi ma spiegano l’ampiezza del problema, sappiate che un italiano su tre dichiara meno di 10.000 euro l’anno, cioè una cifra insufficiente a campare degnamente. Si aggiunga la questione del lavoro “sovraistruito”, cioè quel trentacinque per cento di lavoratori diplomati e laureati che hanno un’occupazione non adeguata al titolo di studio. Insomma: ingegneri che consegnano pizze, sì, ne abbiamo.
E del resto, quando si trattava di ingolosire investitori esteri a venire qui (ottobre 2016), il Ministero dello Sviluppo Economico stampò e diffuse delle belle brochure colorate dove si leggeva: “Un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi lo stesso profilo ha una retribuzione media di 48.500 euro l’anno”. Tradotto: venite qui che costiamo meno, veniamo via con poco, due cipolle e un pomodoro. Un vero e proprio vanto (ancora da quella brochure): “I costi del lavoro in Italia sono ben al di sotto dei competitor come Franciae Germania”. Che culo, eh! Il ministro era – lo dico senza ridere – Carlo Calenda.

Ora, a farla breve, bisogna capire come il salario (che si sognava, a sinistra, variabile indipendente) sia diventato variabile dipendentissima, subordinata e in ginocchio, mentre a diventare variabile indipendente (cioè intoccabile) sono i profitti e le rendite. Capire, sì. E magari anche intervenire sulla vera manovra urgente: riequilibrare la voragine che si è aperta nel reddito dei lavoratori italiani, quelli che hanno pagato la crisi. Quali forze politiche oggi vogliono e possono prendere questo problema e farne il centro della loro azione? Si direbbe nessuna. Eppure, a proposito di popolo e populismo, quella sui salari sarebbe una battaglia assai popolare, a patto di tornare un po’ verso sinistra (il Pd) o di andarci (i 5 stelle). Chissà, forse disegnare intorno al lavoro (dignità, salari, diritti) una qualche politica di medio-lungo termine, invece di stare appesi alle battaglie dello sceriffo Salvini, sarebbe una luce in fondo al tunnel.

DAL BLOG ALESSANDROROBECCHI.IT

La situazione la fotografo come un cane che girando su un palo vuole mordersi la coda,pare stucchevole come sia cieca tendente a far sbattere il Paese contro un muro,più il lavoro renderà miserabili le persone e più l’economia risulterà stagnante.

Un tetto ai guadagni dei manager per redistribuire la ricchezza in ogni azienda pare assolutamente necessaria,pur mantenendo la giustissima meritocrazia,ci mancherebbe,ma non è accettabile che per quanto una figura sia importante,debba guadagnare come migliaia di persone in taluni casi,Fca insegna.

Tenendo ben presente che il costo del lavoro in Italia risulti caro rispetto ad altre realtà,pur avendo stipendi medi più bassi,la differenza la fa la pressione fiscale,se si arriva a pagare il 40% di tasse e il 50% se si supera una certa soglia,è una mostruosità a mio giudizio.

Inoltre,studierei molto bene la possibilità di far lavorare più persone riducendo l’orario di lavoro,con meno pressione fiscale si riuscirebbe a ottenere anche questa opportunità.

Chissà se le due forze che lei ha citato finalmente decidessero di non farsi più i dispetti,e affrontassero queste problematiche,anche perchè se si veste da operaio il felpato,al massimo si imbuca subito dal titolare per mettersi d’accordo…

I.S.

iserentha@yahoo.it

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