martedì 19 aprile 2016

I conti con l'oste si faranno alle Comunali e soprattutto al referendum sulle riforme di ottobre












Di qui a giugno - e soprattutto a ottobre

di Alessandro Gilioli

Tre dei candidati sindaci del Pd nelle quattro maggiori città d'Italia sono andati a votare al referendum sulle trivelle: Sala, Giachetti e Fassino. Solo a Napoli la Valente si è astenuta.

Il motivo è evidente e si chiama ballottaggio.

I candidati del Pd - quando arriverà il secondo turno - avranno bisogno del voto di sinistra: quella radicale, certo, ma soprattutto quella genericamente non renziana. In tutto, qualcosa che vale almeno il 10-15 per cento dell'elettorato: decisivo al ballottaggio. Quindi i candidati del Pd si sono fatti vedere ai seggi, per non alienarsene del tutto le simpatie. Dappertutto tranne che a Napoli, dove il voto alla sinistra di Renzi è comunque perso, perché Valente - se mai arrivasse al secondo turno - dovrebbe vedersela con De Magistris.

A Milano invece Giuseppe Sala si scontrerà al ballottaggio con il centrodestra e lì il voto di sinistra gli servirebbe parecchio.

È dato in bilico, dagli ultimi sondaggi, quelli di Index: 37 a lui e 36 a Parisi, al primo turno. Del resto, sono candidati quasi indistinguibili. La candidatura di Sala - legittimata dalle primarie in cui i due candidati di sinistra si sono elisi tra loro - è una delle tante dimostrazioni di come non valga più il principio secondo cui per vincere la sinistra deve virare al centro. Paradossalmente, sta accadendo il contrario: il candidato di establishment Sala sta rivitalizzando un centrodestra che in città era morto, dopo la buona gestione Pisapia. Ha dell'incredibile, che il centrosinistra rischi di perdere in una città dove la destra è sputtanata e il M5S quasi non esiste. Quasi un miracolo alla rovescia. By the way, che l'annacquamento al centro non paghi più in termini elettorali lo ha capito anche lo stesso Sala, che da quando è in corsa sta facendo quello di sinistra, tutto pugni chiusi e magliette di Che Guevara. Un po' penoso, con rispetto, nel tentare di raschiare consensi sposando un'iconografia che proprio non gli appartiene e che ormai è considerata obsoleta anche da chi, per valori, è di sinistra davvero.

Per la stessa ragione - non perdere voti a sinistra - domenica scorsa Sala è andato alle urne, seppur dicendo che il referendum era «costoso»: un colpo al cerchio e un colpo alla botte, è dura fare allo stesso tempo il candidato di Renzi e il pieno a sinistra.

A Roma Bobo Giachetti - dicono i sondaggi - andrà al ballottaggio contro Raggi, seppur da inseguitore. Merito soprattutto del caos in cui si è infilata la destra, nella capitale: con quattro candidati in corsa (Meloni, Marchini, Bertolaso e Storace) più frattaglie estreme tipo CasaPound o Adinolfi. In altre parole, se Giachetti va al ballottaggio lo deve soprattutto al fatto che Berlusconi ormai non ne azzecca più una e a Roma ha fatto un casino totale.

In vista del ballottaggio contro Raggi, il Pd ha più che mai bisogno di strappare alla candidata del M5S l'elettorato di sinistra, in parte tentato di votarla. Ecco allora che tutta la campagna contro Raggi è pensata per dire che lei «è di destra». Allo scopo, l'Unità è arrivata a pubblicare un video di gente che cantava "meno male che Silvio c'è" con la didascalia: «Ma non è Virginia Raggi la ragazza nel video?». No, non era la Raggi. Era una bufala. Un paio di giorni dopo il direttore dell'unità ha spiegato che pubblicare quel video farlocco era «giornalismo 2.0». La rivendicazione di una balla è probabilmente un punto di non ritorno nella narrazione falsificata.

Comunque Raggi prima di entrare nel M5S votava Pd. "La Stampa" racconta che in passato ha lavorato «col mondo di Sel, con associazioni come la Ex Lavanderia, con occupazioni solidali di luoghi come l’ex Manicomio Provinciale Santa Maria della Pietà, mercatini biologici e gruppi d’acquisto equosolidali». A occhio non mi sembra un curriculum esattamente di destra. Tra l'altro, al Guardian ha spiegato di avere posizioni diverse da quelle di Grillo rispetto ai migranti. In ogni modo, da qui al 5 giugno sentiremo continuamente dire che "Raggi è di destra". È probabilmente l'unico modo in cui il Pd può pensare di vincere al secondo turno, a Roma, dato che per il resto la reputazione del partito in città è scarsina, dopo Mafia Capitale, e dopo il colpetto notarile contro Marino, sei mesi fa.

A Torino il candidato Pd è messo molto meglio. Del resto, Piero Fassino è abbastanza navigato. Ha capito che per farcela non può prendere i voti solo del "Pdr" ma anche del "Pd" nel suo complesso (per usare l'espressione coniata da Ilvo Diamanti, dove il "Pdr" è il partito di Renzi). Quindi si tiene lontano dalle beghe nazionali. E parla solo di temi locali, mezzi pubblici, tombini, cose così. E batte la città strada per strada, molta più presenza fisica che tweet. Anche lui ha votato al referendum sulle trivelle perché anche lui al ballottaggio contro la pentastellata Appendino avrà bisogno come il pane del voto di sinistra. Che al primo turno andrà in parte a Giorgio Airaudo, dato dai sondaggi attorno al 10 per cento. Ma al secondo turno è libero.

Poi c'è Napoli che, va beh, è tutta una storia a parte. Al momento, nei sondaggi, la piddina Valente è addirittura terza, dopo De Magistris e il candidato di centrodestra, Lettieri. Nel caso lo scontro fosse netto e verticale tra la destra di Lettieri e la sinistra di De Magistris, sarà interessante vedere se e quali indicazioni darà il Pd locale.

Questo il quadro nelle quattro città, dopo il referendum sulle trivelle e le sue conseguenze emotive nell'elettorato di sinistra. Al Nazareno danno per persa Napoli e quasi Roma. Informalmente, dicono che un 2 a 2 nelle quattro città (sconfitta a Napoli e Roma, vittoria a Milano e Torino) sarebbe già un risultato accettabile.

Ma soprattutto, data la situazione, l'ordine è di "tenere basso" il voto del 5 giugno. Non dargli importanza. E puntare dritti all'appuntamento "epocale" del referendum costituzionale, a ottobre. Che Renzi vede come un plebiscito su di sé e così lo imporrà mediaticamente. Anzi, lo sta già imponendo.

Gli piace soprattutto il modo in cui si voterà: "sì" i favorevoli alla riforma Boschi, "no" i contrari. Non è solo questione di semplicità. È che così potrà usare a piacimento e all'infinito l'arma retorica contro l'«Italia del no». Cioè i cattivi, i gufi, i professoroni, ma soprattutto quelli che «non vogliono cambiare».

Di qui all'autunno sarà il refrain ovunque: lo leggerete dappertutto, lo sentirete in ogni talk show, in ogni titolo di Tg, in ogni "Renzi ai suoi" della Meli sul Corriere. Altro che sindaci. Del pasticcio semianalfabeta con cui è stata scritta la riforma Boschi - tanto nelle modalità di scelta dei senatori quanto nei loro ambigui poteri che scateneranno un casino infernale di ricorsi - non parlerà nessuno. Sarà solo una campagna totale contro «l'Italia del no», per potere poi dire #ciaone.

Mi auguro che ne siate almeno consci e pronti, ecco.

DALL'ESPRESSO BLOG-PIOVONO RANE

I candidati sindaci Pd che si sono recati alle urne hanno dimostrato solo un pessimo opportunismo,sono tutti renziani altrimenti non sarebbero candidati sindaci,hanno avuto la deroga di permettersi di votare.

Per ciò che riguarda il personale no alle riforme del toscano,lo scelgo perchè non è possibile che con un 30-35% che si incassa alle elezioni politiche,una forza,più che altro un uomo abbia un potere assoluto per cinque anni.

Nella culla della democrazia,la chiamano ancora così,negli States il Senato ha delle possibilità di contrastare il Presidente,bastava riformare in modo più equilibrato per incassare la sicura fiducia degli elettori,in questo modo sarà curioso prendere atto se la riforma passerà o meno ad ottobre.

Poichè se vince il si,avremo il Pd con tutti i moderati che si sono aggregati per molti anni,altrimenti la parabola discendente del cerchio magico fiorentin-toscano, direi che inizia il countdown finale.

I.S.

iserentha@yahoo.it

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