venerdì 28 marzo 2014

Kurt Cobain la vittima predestinata




Il suicidio degli Anni 90

VENT’ANNI FA, IL 5 APRILE DEL 1994, MORIVA IL LEADER DEI NIRVANA KURT COBAIN, SIMBOLO ARTISTICO DI UN DECENNIO

di Andrea Scanzi

Fu una strana cronaca di una morte annunciata, quella di Kurt Cobain. Tutti sapevano che sarebbe finita così, ancor più gli italiani, che un mese prima lo avevano visto finire in coma a Roma per avere ingerito “per errore” 50 dosi Rohypnol e Champagne. Eppure, quando l’elettricista Gary Smith lo trovò suicida nella casa al 171 di Lake Washington Blvd, East Seattle, ci fu comunque stupore. Anche se era una storia già scritta. Anche se tutti sapevano che quell’angelo aveva la pelle troppo sottile. Anche se era stato Cobain stesso a dire – anzi urlare – che non ce la faceva più. Una volta, in Brasile, salì sul palco con una maglietta su cui c’era scritto: “Mi odio e voglio morire”. Il titolo di una canzone che poi tagliò da In Utero. Il resto della band gli chiese dove mai avesse trovato una t-shirt così macabra. Lui rispose che se l’era fatta da solo e poi sorrise. Uno di quei suoi sorrisi in dissolvenza, che nascevano già malati e tristi. Come quando, il 23 febbraio 1994, quaranta giorni prima di morire, gravitò ad Avanzi su RaiTre. Riuscì persino a spaventarsi per uno scherzo di Corrado Guzzanti, travestito dallo studente grunge Lorenzo. Serena Dandini lo descrisse come “una persona di una sensibilità estrema, indifesa, che difficilmente riuscivi a guardare negli occhi, con uno sguardo di paura come di un cucciolo braccato dal mondo”.

IL CUCCIOLO braccato, dal mondo e da se stesso, si sparò al volto con un fucile a pompa il 5 aprile 1994. Lo trovarono tre giorni dopo. Accanto aveva una lettera d’addio. Era destinata al suo amico immaginario Boddah. Tra le altre cose, diceva: “Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco”. Citava anche una canzone di Neil Young, “My my, Hey Hey (Out of Blue)”: “È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”. L’uscita di scena perfetta per il cantore (suo malgrado) di una generazione che aveva disperatamente bisogno di un nuovo martire, pronto a immolarsi prima e iscriversi poi al “Club 27”. L’età che aveva Kurt quando si ammazzò: la stessa di Jimi Hendrix, di Janis Joplin, di Jim Morrison.

La sua vita cambiò nel 1991. Nevermind, il disco più celebre dei Nirvana, solo negli Stati Uniti sforò i 25 milioni di copie di vendute e sconfisse il favorito Dangerous di Michael Jackson: da una parte la rivolta più di pancia che di cuore, dall’altra i postumi degli Ottanta malamente sfavillanti. Il grunge fu per i primi anni Novanta ciò che il punk era stato nella seconda metà dei Settanta: la protesta, l’iconoclastia, il rovesciamento del sistema non per un ideale politico ma – semplicemente – perché non se ne poteva più delle finzioni. Molte icone del grunge seguirono una sorta di copione intimamente condiviso anche nel processo di scomparsa. Una delle maniere con cui Cobain annunciò la sua morte fu un concerto crepuscolare per MTV. 18 novembre 1993. Un’esibizione “unplugged”, acustica, che contiene una versione straziante di All apologies. In quella canzone Kurt era già morto. Come lo era Johnny Cash nelle American Recordings. Come lo era Layne Staley nell’MTV Unplugged degli Alice in Chains.
Cobain era l’antieroe perfetto: il tramite ideale per innamorarsi di un’utopia sufficientemente sporca e fatalmente sconfitta. Il giorno in cui l’Italia apprese la sua morte, le due notizie principali erano il suicidio di Cobain e l’accordo tra Fini e Bossi. Una sorta di decesso al quadrato: il privato e il pubblico prontamente estinti, e chi si è visto si è visto. Prima mito e poi musicista, le sue doti paiono oggi colpevolmente passate in secondo piano.

CANTANTE PRODIGIOSO, artista dotato di una sensibilità pionieristica. Inventore di un look studiatamente errato, cristologico nei capelli e iconografico nella maniera di imbracciare la chitarra, tenendola bassa e suonandola con la mano sinistra per sottolineare la propria originalità. Drogato in ogni modo e praticamente da sempre, un po’ per curare i dolori di stomaco e molto per illudersi che il malessere potesse conoscere tregua. Il rapporto problematico con i genitori separati, il matrimonio scombinato, la figlia Francis Bean oggi 22enne. I suoi ultimi giorni, dubbi e complotti compresi, sono stati raccontati non senza licenze poetiche da Gus Van Sant in Last Days. Suicidi tentati, fughe da cliniche riabilitative: gridi di aiuto ascoltati da tutti e recepiti da nessuno. Riteneva che il suo album migliore fosse In Utero, dissonante e fieramente anticommerciale.
Il mondo continua a preferirgli Nevermind e “l’inno dei ragazzi apatici” Smells Like Teen Spirit. Cobain intendeva scrivere una canzone “alla Pixies”. La band ritenne inizialmente quel riff “ridicolo”. Il titolo deriva da un profumo che si chiamava Teen Spirit. Un’amica di Cobain, dopo una notte passata insieme tra alcol e vandalismo, scrisse sul muro della casa dell’artista che “puzzava di Teen Spirit”. Kurt non conosceva quel profumo e credette che la ragazza alludesse ai discorsi fatti su punk e anarchia. Lo prese per complimento: “Profuma di spirito adolescenziale” e dunque di rivoluzione. Il titolo sbagliato per un inno a una generazione non meno fraintesa e sfuocata, di cui Cobain fu – prim’ancora che portavoce – soldato in trincea. Senza alcuna speranza di sopravvivere.



A fronte dell'articolo di Scanzi non paiono dubbi sulla tormentata fine del rockers americano,le estreme difficoltà della sua esistenza fisiche e psicologiche sono da considerare dei macigni,e se qualche dubbio pare affiorato sul suicidio di Cobain da alcuni giornali ultimamente,pare creato ad arte nel destare interesse mediatico su un drammatico gesto finale.




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