giovedì 5 dicembre 2013

La scadentissima qualità della pubblicità tendente all'idiozia




Ridicoli solo per stupire È la pubblicità regresso

ORIGINALI A TUTTI I COSTI. E PUNTUALMENTE SI VA AL DERAGLIAMENTO LOGICO

di Andrea Scanzi

In una delle sue molteplici profezie, Pier Paolo Pasolini riteneva che l’uomo stesse andando incontro alla propria autodistruzione. Come? Smettendo di pensare, anche e soprattutto per colpa della dittatura del mercato, che aveva finito con il far coincidere l’inseguimento dell’utopia più nobile con l’impossessarsi del prodotto più à la page. Pasolini parlava di massimi sistemi, ma – quarant’anni dopo – basta forse vedere la foca con la voce diversamente graziosa di Luciana Littizzetto per capire cosa intendeva. Se la pubblicità è un’arte, e certo lo è perché deve vellicare il desiderio (si spera assai recondito) per un dentifricio o un assorbente, ultimamente non se la passa granché bene. Almeno a guardare la tivù o ascoltare la radio. Inchiodato a metà strada tra il Carosello che fu e il cortometraggio che vorrebbe essere, la pubblicità è troppo spesso un coito interrotto di genialità. Vorrebbe stupire, ma risulta ridicola. La foca doppiata da Madamin Lucianina, peraltro e insensatamente corteggiata da Big Jim somiglianti a tanti Borriello passati di lì per caso, è solo un esempio. Gli animali furoreggiano, senza avere neanche più il candore dei cuccioli di labrador beige che srotolavano interminabili rotoli di carta igienica. C’è il pinguino rapper con la voce di Elio. C’è l’orso che parla con la voce di Diego Abatantuono, e a sentirlo esplode una voglia incredibile di imbracciare un fucile, andare in Canada e sparare a tutto ciò che si muove nelle vicinanze. Dalle pubblicità progresso a quelle regresso, laddove l’indietreggiamento è anzitutto creativo. Chi passa molto tempo in radio, prima o poi, si è beccato Simona Ventura che pubblicizza con una spalla (presunta) comica una marca di auto: per contrasto, fa quasi rivalutare la Duna. Sempre in radio è tutto un fiorire di rimedi per tappi alle orecchie e afte. Solo che, se ascolti la filastrocca che la mamma canticchia alla figlia sui poteri lisergici delle gocce anti-cerume, avverti l’insano desiderio di consegnarti con folle ardore a un’otite pressoché fulminante.

SPESSO LA PUBBLICITÀ è cerebrale. Molto cerebrale. Troppo cerebrale. Arrivi alla fine e ti chiedi: “Sì, ma che cavolo pubblicizzava?”. Lillo e Greg, a 610 su Radio2, ironizzano proprio su questo: spot con interminabili introduzioni pseudoletterarie che andrebbero forse bene come cappello alle telecronache di Caressa, ma non si capisce cosa c’entrino con profumi o dopobarba. Se sogni un Suv, per punizione ti becchi un plinplin di Giovanni Allevi. Se hai sete, per contrappasso ti becchi un plin plin (stavolta non al pianoforte) di Chiabotto & Del Piero, nel frattempo assurto a novello San Francesco a furia di parlare ai passeri. Sequenze memorabili ti inducono a desiderare la diarrea anche solo per poter poi esibire sul volto l’ebbrezza del tizio che ora è guarito ed è felice come neanche D’Alema dopo una Bicamerale. Qualcuno, per contrastare la moda del postmoderno o addirittura dell’ipertecnologico, si trincera nella tradizione. Ci sono ancora veterinari bicentenari che continuano a salvare alci nell’Antartide, pur di bersi poi un amaro in compagnia. Ci sono detersivi che promettono lavaggi biblici, però in cambio devi sopportare la pettinatura di Fabio De Luigi. E cedrate pre-belliche, con jingle che erano già desueti ai tempi del governo Tambroni. La pubblicità ha spesso inventato tormentoni destinati a rimanere. “Camicie coi baffi”, “Io ce l’ho profumato”, Randi Ingerman responsabili di ciucche alcoliche preadolescenziali a base di vodka e ormoni. Oggi la capacità di incidere non è smarrita ma sbiadita, come se l’efficacia avesse ceduto il passo a un desiderio cervellotico di apparire originali a tutti i costi. Portando puntualmente al deragliamento logico. Si va dalle freddure di Giorgio Panariello ai bifidus miracolosi, passando da Fiordaliso eternamente magre e colesteroli eroicamente trafitti da yogurt incazzosi. Lo spot è una girandola di idee ipotetiche e slogan impalpabili. Più il messaggio è criptico, più ci si sente Kiarostami. Con la differenza che, per Kiarostami, c’è il premio della critica.

PER UNA pubblicità che non si capisce, l’unico risultato concreto è lo straniamento. Come quella della tizia che schiavizza il bonaccione legandolo a uno strumento agricolo di tortura, per obbligarlo ad alitare e dunque asciugare le lenzuola bagnate (in via teorica è un inno ai chewing-gum ). Radiografando il livello degli spot che ogni giorno ci bombardano, sovviene un timore: che il prodotto sia in realtà uno solo, da tutti i pubblicitari condiviso, e si chiami rincoglionimento generalizzato. Nel qual caso, e non da ieri, è un prodotto che in Italia pare andare a ruba.



Non si può essere in disaccordo con le riflessioni di Scanzi,almeno per chi da anni pensa che le tonnellate di pubblicità imperversano dappertutto e una dose così massiccia non può che rimbambire,ma se si riesce a rimanerne immuni,particolare parecchio difficile,gli sforzi del bombardamento risulteranno del tutto inutili.

Posso consigliare a chi riesce a vedere Euronews di notare la qualità degli spot su quel canale di notizie,abituati alla discarica commerciale nostrana,da quelle parti paiono d'autore.Purtroppo il canale televisivo si può vedere solo su satellite.

per eventuali notifiche - iserentha@yahoo.it

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