mercoledì 3 giugno 2009

4 giugno 1989,Tienanmen venti anni dopo






Duemila anni fa, meditando sull'ininterrotto fluire del tempo, Confucio rivolse lo sguardo a un fiume, sospirò e disse: "Ciò che passa è così, non si ferma mai, giorno e notte...". In Cina il tempo può sembrare simultaneamente immobile e inarrestabile. Il Massacro di Tienanmen, che venti anni fa sconvolse Pechino, provocò la morte di migliaia di cittadini inermi, cambiò per sempre la vita di milioni di cinesi, pare oggi relegato nel Ventesimo secolo, dimenticato o ignorato, mentre la Cina prosegue la sua cieca corsa verso il futuro.

L'amnesia alla quale la Cina ha finito col soccombere non è dovuta a una naturale perdita di memoria, ma a un'opera di rimozione forzata voluta dallo Stato. Il Regime Comunista cinese non tollera neppure che si parli del massacro, ma la Piazza Tienanmen e altri luoghi collegati agli eventi del 1989 sono saturi di ricordi. Quando si censurano le parole, scritte o pronunciate che siano, il paesaggio urbano assume una risonanza maggiore e diventa l'unico legame concreto di una nazione col proprio passato.

Lasciai Pechino nel 1987, poco prima che i miei libri fossero messi all'indice. Ho continuato però a farvi ritorno a intervalli più o meno regolari e nel 1989 mi trovai in Piazza Tienanmen insieme agli studenti, vissi nelle loro tendopoli improvvisate, mi unii anch'io al loro coro entusiasta dell'Internazionale. Nei venti anni passati, ogni volta che ho fatto ritorno a Pechino, ho rievocato i ricordi di quei giorni con sempre maggiore intensità. Nell'agosto scorso, durante le Olimpiadi di Pechino, ho accompagnato in Piazza Tienanmen mio figlio, che adesso ha cinque anni. Lungo tutto il tragitto i nostri movimenti sono stati costantemente monitorati dalle telecamere della CCTV già nell'ascensore del nostro condominio e fuori dalla cancellata del nostro quartiere, dai dispositivi di intercettazione a bordo del nostro taxi, dalla polizia armata che pattuglia ogni strada e dalle guardie di sicurezza che ci hanno perquisito prima di autorizzarci ad accedere alla piazza. Siamo usciti dal sottopassaggio e abbiamo finalmente messo piede a Tienanmen. A eccezione di un folto plotone di poliziotti, di agenti in borghese (per altro immediatamente riconoscibili dagli occhiali scuri e dalle camicie Aertex a righine) e di composizioni floreali di cattivo gusto, la vasta piazza quadrata di cemento, grande come nove campi da calcio, era pressoché deserta.


Nella primavera del 1989, la Piazza era stata invasa dagli studenti e dagli abitanti di Pechino che vi inscenarono la più grande protesta pacifica della storia: chiedevano dialogo, esercitavano pressioni per poter trattare con la leadership comunista, e ambivano in definitiva alla libertà e alla democrazia. La Piazza, gremita all'inverosimile, in quei giorni divenne il cuore pulsante dell'intera città. La polizia pareva scomparsa. Fu una manifestazione pacifica di anarchia nobile, entusiasta e sorprendentemente ordinata.

Mio figlio si è avviato di corsa in direzione del punto esatto dove venti anni prima gli studenti avevano eretto una gigantesca riproduzione in polistirolo della Statua della Libertà. Si è girato e ha guardato verso nord, verso le mura di Tienanmen, l'ingresso alla Città Proibita, dove un tempo vissero gli imperatori cinesi. Nel 1949 proprio da quelle mura Mao proclamò la fondazione della Repubblica Popolare. L'anno scorso le pareti rosso sangue della mura erano ricoperte da ponteggi, impalcature e reti verdi. In coincidenza di periodi delicati per la politica, quelle mura sono invariabilmente ricoperte per "urgenti lavori di riparazione", così che la folla non possa avvicinarsi abbastanza da potervi scarabocchiare slogan sovversivi. L'unica porzione di mura che i turisti sono stati in grado di fotografare l'anno scorso era quella con il ritratto del Presidente Mao che sovrasta l'arco centrale.

Mio figlio ha fissato con attenzione la faccia rosea e paffuta del despota, e mi ha chiesto chi fosse. "Mao Zedong" ho risposto. "Ed è morto?" ha domandato ancora, col sudore che gli imperlava le guance. "È morto parecchi anni fa. Il suo corpo riposa in quell'edificio là" gli ho spiegato, indicando il mausoleo grigio di cemento alle nostre spalle. Mio figlio si è girato ed è partito di corsa in direzione di un carretto di gelati. Ciò mi ha riportato alla memoria ancora una volta il 1989, quando dovetti attraversare di corsa l'intera Piazza - nella medesima intollerabile calura - con un sacchetto nello zaino pieno di ghiaccioli per i miei amici scrittori che avevano marciato fino alla Piazza dall'Accademia di Scrittura Lu Xun per reclamare la libertà di parola e chiedere che venisse posta fine alla corruzione del governo. Mentre sfilavano, con le dita a "V" avevo fatto in loro direzione il segno della vittoria. Quel giorno in Piazza era sceso oltre un milione di persone. Il cielo era azzurro come in quel momento, ma invece del profumo di fiori e di erba verde, l'aria era impregnata dell'acre olezzo di sudore di tutta quella gente, dei rifiuti in decomposizione, delle esuberanti urla di protesta.

L'articolo integrale dello scrittore cinese Ma Jain pubblicato dall'Espresso,sono sette pagine 



Il sacrificio della rivoluzione giovanile del 1989,per quanto fosse del tutto legittima la protesta,non ha avuto i frutti sperati,il regime negli anni immediatamente successivi continuò imperterrito con il potere acquisito,tranne porre le basi negli anni 90 ad un vero e proprio capitalismo di stato,il quale ha portato un enorme sviluppo,ma in buona parte,il peggiore che avrebbe potuto determinare,dallo sfruttamento di intere popolazioni ad un inquinamento gigantesco.

Rimane la memoria delle innumerevoli vittime,le immagini e le testimonianze dell'epoca sono indelebili,quella mattanza il regime comunista cinese non riuscì a nasconderla.

&& S.I. &&

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