domenica 14 agosto 2016

Nous sommes Riccardo Mannelli











Neppure Siberia e manganelli hanno mai fermato la satira (libero sberleffo su libera coscia)

di Alessandro Robecchi

Per quanto interessante, il dibattito sulla satira è piuttosto ripetitivo, probabilmente è dai tempi dei sumeri che, se non si può vietarla, la si accusa di volgarità, di cattivo gusto, di zozzeria eccetera eccetera, insomma le si rimprovera di essere satira. Per dire della raffinatezza storica della materia, capitava non di rado che durante la commedia dell’arte gli attori mimassero sul palco l’atto del defecare (a volte nemmeno fingevano), e nel Medioevo (ma pure dopo), quando un nobile veniva assolto ingiustamente, si inscenavano in piazza delle “executio in effige” in cui il potere veniva sbertucciato in ogni modo (seguiva repressione). Ma insomma, l’arietta non è nuova: la satira prevede una libertà assoluta e ribelle, e se si vuole partire con la faccenda del pensiero unico, beh, storicamente è la prima che prende qualche sberla.

Solo che vietare la satira (o chiederle di piegarsi al conformismo grottesco del politicamente corretto, che è lo stesso) non ferma la satira, perché chiedere ai sudditi di non ridere di chi li comanda è al di là delle umane cose.

Ah, sì, Mannelli, ovvio. Il sessismo è trovata relativamente nuova, ma la faccenda del cattivo gusto e dell’oscenità, invece è roba antica. George Grosz, a cui dobbiamo la più feroce descrizione della Germania anni ’20, coi suoi pescecani di guerra, fu condannato (e rovinato: morì in un manicomio) proprio per oscenità, per il disegno di un Cristo con la maschera antigas, vignetta di protesta contro la Grande Guerra. Ma il vero osceno della sua opera sono quei volti sfatti dal benessere diseguale, dalla ricchezza arraffona. E le donne, puttane povere o razza padrona, con quei corpi tumefatti dal presente, lividi dall’avere troppo, o troppo poco, dicono alla perfezione lo spirito dei tempi. Insomma, satira. Sgradevole, anche, e quindi buona.

Non che andasse meglio in altri posti e in altre epoche. Vero che il fascismo tollerò qualche risata, ben attento che l’umorismo non tracimasse nella critica. E vero anche che molti dei migliori talenti del dopoguerra maturarono in giornali satirici blandamente tollerati (Zavattini, Scola, Fellini, Marcello Marchesi al Marc’Aurelio, per dire). E l’immenso Petrolini, insignito di qualche medaglia dal regime riuscì addirittura a prenderli per il culo durante la cerimonia, urlando: “Me ne fregio!”. Grandioso.

Però quando il gioco si faceva duro, niente da fare, censura e confino. Così per Giuseppe Scalarini, che di fatto inventò la vignetta politica italiana, fu un continuo di condanne e soggiorni punitivi. E Il Becco Giallo, che faceva ridere un bel po’, fu fatto chiudere senza tante cerimonie. Osava, tra l’altro, irridere il fervente fascismo di Luigi Pirandello chiamandolo P.Randello. Chapeau.

Non per questo gli italiani smisero di ridere dei loro (in effetti ridicoli) capataz: le barzellette sul Duce sono state una specie di genere letterario per anni. Punite e represse dall’occhiuto regime, che quindi faceva più ridere ancora e generava più barzellette, come quella storica dell’autista di Mussolini che investe con la macchina un maiale.

“Vai a avvertire alla fattoria – dice il Duce, sempre attento al popolo – dì che sei il mio autista”.
Quando quello torna carico di doni, il Duce fa la faccia stupita e il milite spiega:
“Ho detto: sono l’autista del duce e ho ammazzato il porco. E quelli mi hanno fatto festa e coperto di doni”.
Divertente. Oggi si direbbe che alimenta la violenza? Mah.

A vietare la satira, poi ci hanno provato tutti. Nel grigiore sovietico del dopoguerra, anche dopo Stalin, la risata sul regime era un classico, e si rischiava pure parecchio, come dice appunto la barzelletta dei due giudici che parlano tra loro:

“Ah, oggi ne ho sentita una bellissima sul Politburo”.
“E come fa?”.
“Fa tre anni e sei mesi di Siberia”.

Raffinatezze russe, mentre nella Germania dell’Est si andava più terra-terra e fa ridere la storiella di Honecker che ordina di costruire una passerella sul lago per mostrare al suo popolo che sa camminare sulle acque. I tedeschi guardano la scena e commentano:

“Pensa come siamo messi, abbiamo un Segretario Generale che non sa nemmeno nuotare”.

Ora, diciamolo: non sono più i tempi adolescenti e belluini in cui si credeva che “una risata vi seppellirà”, però è innegabile che la risata contro il potere rimane un gesto eversivo. Persino quando la fa il potere stesso: perché sarà vero che l’aperto sghignazzo di Merkel e Sarkozy in faccia a Silvio buananima (ottobre 2011, memorabile) non era satira, però che l’abbiano seppellito non c’è dubbio.

Ma sia come sia, quello che viene dal basso, dalla pancia dolente delle persone qualunque, cittadini trasformati in sudditi, è un ridere amaro e strafottente, sempre al confine tra la satira e l’insulto, tra il sarcasmo e l’ironia, e del “buongusto” e del “politicamente corretto” ama fottersene alla grande.

Certo si può vietare la satira con le cattive o con le buone (blandendola, levandole il detonatore del coraggio, o della volgarità, o del cattivo gusto, o della sgradevolezza, insomma, ammaestrandola, rendendola digeribile), ma non ce se ne libererà mai veramente. Nemmeno nei casi più gravi, come dice la vecchia storiella russa dei due amici dissidenti:

“Senti, ho un brutto presentimento. Facciamo così, se mi deportano in Siberia io ti scrivo. Se scrivo con inchiostro nero è tutto vero, se scrivo con inchiostro rosso vuol dire che mi controllano e non devi credere a quello che dico, ok?”
“Ok”
Mesi dopo l’amico riceve una lettera dalla Siberia
“Caro Boris, ti scrivo finalmente dalla mia nuova casa. Qui è tutto bellissimo, si mangia bene, le ragazze sono gentili, un vero paradiso. Solo un piccolo difetto: non vendano inchiostro rosso”.

Ecco, siamo in un periodo in cui l’inchiostro rosso è meglio tenerselo stretto, e anche se il dibattito su quanto è sgradevole e scorretta la satira lo sentiamo dai tempi delle piramidi è bene dirlo ancora: trattasi di luogo libero, così libero che non c’è nulla su cui non si possa ridere, specie se potente. Corpi santi non ce n’è, spiacenti, né petto né coscia.

DAL BLOG ALESSANDROROBECCHI.IT

Siamo talmente liberi,che l’unico più famoso rimasto della satira contemporanea televisiva,dopo una certa emarginazione su La7 ora è andato su Discovery mi pare,così tanto per ridurre ancor di più la nicchia di spettatori che lo possano seguire.

E dopo tutte le gaffe,da impreparata allo sbaraglio della Ministra in giro per l’Italia,detta anche l’intoccabile dalle parti pidine,c’è stata una insurrezione mediatica per un paio di cosce al vento,particolare che lo stesso giornale ha riportato il giorno dopo con l’immagine in cui la ministra era beatamente scosciata in foto,sempre che la Boldrini possa tollerare la libertà di mostrarle.

Senza riflettere quanto sia esteticamente notevole la signora delle riforme,e nello stesso tempo nettamente in contrasto con il disordine di idee che sta seminando.

A questo punto e fortunatamente,anzichè il rogo per Mannelli della santa inquisizione mediatica,abbiano chiesto solo il fine rapporto professionale con l’artista,e dalle parti del Fq la risposta è stata giustamente una colossale pernacchia.

Nous sommes Riccardo Mannelli

I.S.

iserentha@yahoo.it

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