martedì 12 luglio 2016

Come raccontare un Italia mitologica dall'ultimo film di Michael Moore

















Ora che sta finendo il Trentennio

di Alessandro Gilioli

Non so se avete visto l'ultimo film di Michael Moore, "Where to Invade Next". Da noi è circolato pochissimo, io l'ho intercettato quasi per caso, all'estero.

Peccato, perché stimola un sacco di riflessioni. Sull'Italia, sull'Europa, sulla questione sempre più evidente delle "élite" che qualcuno peraltro pone da almeno cinque anni. Quindi su tutto quello che sta succedendo in Europa - dal Brexit al M5S - e pure negli Stati Uniti (Sanders, Trump).

L'idea del film è semplice: dopo aver invaso alcune dozzine di Paesi dal 1945 a oggi, Moore suggerisce ironicamente al suo governo di invadere alcuni Stati d'Europa. Questa volta non per vincere conflitti mondiali, inseguire terroristi o portarsi a casa qualche ricchezza naturale, ma per imparare uno stile di vita - e di regole sociali - diverso da quello nordamericano.

Il primo Paese invaso da Moore è proprio il nostro e qui - per noi - il film è particolarmente urticante.

Perché vi vediamo ritratta un'Italia che non c'è più o che c'è sempre meno: quella in cui tutti hanno 13 mensilità di stipendio, sei-otto settimane di ferie l'anno, il congedo di maternità, la liquidazione, padroni talmente illuminati da considerare il benessere dei propri dipendenti utile a migliorarne le prestazioni lavorative, quindi a produrre beni o servizi di alta qualità.

La reazione che abbiamo di fronte a questo quadretto oleografico è di disappunto, se non di incazzatura.

Perché da venti-trent'anni la fetta di italiani che godono di quei benefici si è sempre più assottigliata. Per i più giovani poi è pura mitologia.

Sono cresciuti invece - a dismisura - quelli che, se qualche tipo di lavoro ce l'hanno, lo fanno a partita Iva, a collaborazione, a settimana, a tirocinio, a voucher. Se godono di qualche giorno di ferie, non vengono pagati. Di tredicesima non hanno mai sentito parlare. Quanto al congedo di gravidanza, ho ancora ben chiara l'immagine di mia moglie che lavora sdraiata con il pc sul pancione, il giorno prima del parto. Una settimana dopo era di nuovo lì.

In sostanza, ci siamo "americanizzati": se vogliamo attribuire solo agli americani un'ideologia che in realtà è globale.

Ha torto allora Moore, a proporre ai suoi concittadini Usa un "modello italiano" che in realtà non esiste più?

No, fa benissimo.

Fa benissimo perché ribalta una narrazione truffaldina: quella che gabellava per modello positivo - e per "there is no alternative" - un semplice dogma ideologico, una semplice scelta politica. La scelta di considerare il capitalismo un fine anziché un mezzo. La scelta di peggiorare le condizioni di vita del ceto medio occidentale a favore della concentrazione di capitali in pochissime mani. La scelta insomma di dichiarare una lotta di classe dall'alto verso il basso che ha portato - una trentina d'anni dopo - a uno scontro epocale tra l'ex ceto medio incazzato e una piccola élite di persone che passa disinvoltamente dalla politica alla finanza o viceversa, tanto è più o meno lo stesso (grazie, commissario Barroso, per averci appena mostrato plasticamente il vero concetto di casta, cioè l'intreccio tra politica ed establishment economico).

Insomma Moore mette il dito nella piaga: avverte che esistono - o almeno esistevano - modelli di capitalismo diversi da quello che ha fatto carne di porco dell'Occidente negli ultimi trent'anni, fino a battere in testa nella crisi di oggi, nella crescita delle pulsioni anti-sistema. E lo dice soprattutto a quelli che nella vita, invece, non hanno visto altro che lavoro senza diritti. A quelli che non hanno mai visto un capitalismo dal volto umano. Che poi si chiamerebbe (o si chiamava) Stato sociale.

Ora, è ovvio: quello è un film, non un programma politico. E nessuno può pensare che la soluzione al nuovo conflitto di classe diffuso e asimmetrico sia il semplice ritorno al welfare che avevamo prima del grande ruggito neoliberista. Servono altri modelli, altre proposte, altri strumenti. Basati sulla continuità di reddito più che su quella di lavoro e - si sa - sui servizi pubblici diffusi, che pure costituiscono una forma di benessere anche se non sono cash che entra nelle nostre tasche.

A questo dovrebbe pensare la politica - non il cinema - se avesse contezza di quello che sta succedendo, di cui oggi vediamo solo qualche avvisaglia.

Ah - per inciso - io ho un po' di terrore di quando arriveranno a tutti le mitiche buste arancioni. Altro che Brexit o M5S: cara grazia se i destinatari non usciranno di casa a menare il primo che passa. Specie se la stessa sera vedono in tivù il premier a dire che la crisi è alle spalle.

Ecco: l'Italia raccontata da Moore non esiste più, d'accordo. E nemmeno l'Europa altrettanto illuminata che da quel film emerge. Ma è quel passato lì - quella ricchezza sociale, quel subordinare il mercato all'uomo e non viceversa - il nostro Dna di italiani e di europei. E l'unica cosa su cui si può basare un'Europa domani.

Utile saperlo, utile ricordarlo: per provare a costruire nuovi modelli, ora che il neoliberismo sta infrangendosi contro le conseguenze della sua avidità - e della sua stupidità.

DALL'ESPRESSO BLOG - PIOVONO RANE

Da quel che ho letto Moore ha raccontato un'Italia mitologica,e non mi pare abbia fatto un gran servizio,avrebbe potuto raccontare un c'era una volta e c'è ancora per pochissimi.

No,non è un gran servizio,anche perchè avrebbe dovuto raccontare l'introduzione del jobs act senza vasellina,e soprattutto inchiodare alle proprie responsabilità l'inedia dei lavoratori,che hanno diffusamente accettato le nuove norme senza fiatare,in piazza eravamo davvero pochi,e se questa è la riconoscenza delle lotte dei nostri padri,allora suggeriamo a Moore di raccontare la vera Italia,quella ormai nell'oblio più assoluto.

Questo sarebbe un gran servizio da donare su tutto il globo!

I.S.

iserentha@yahoo.it

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