lunedì 22 giugno 2015

L'utopia della decrescita e del capitalismo ragionevole











Il Papa,la decrescita,il Pd e Grillo

di Alessandro Gilioli

Tutto sommato, fra le molte reazioni ipocrite all'Enciclica del papa quella dell'ipersviluppista Luca Simonetti almeno è onesta: tutte cazzate, ha detto in sostanza alla Stampa, «una nebulosa ideologica piena di errori tecnici».

Per il resto, è stata una pioggia di falsi complimenti da parte di quasi tutto l'establishment politico ed economico che costituisce il vero obiettivo polemico dello scritto di Francesco: la cui Enciclica è stata fatta passare come "ecologica" quando invece affronta di petto la principale questione del presente, cioè il fallimento esistenziale e sociale del capitalismo così come si è declinato dalla sua fase novecentesca a quella postindustriale. (post lunghetto)


Fallimento esistenziale: nel senso che attraverso quel modello tutto iper (iperproduzione, iperconsumo, ipercompetizione, iperiniquità distributiva etc) l'umanità ha creato attorno a sé condizioni di vita un po' troppo avvelenate: intendendo come veleni sia quelli dell'ambiente nel quale viviamo sia quelli che inquinano la qualità delle nostre ore, del nostro tempo, del nostro vivere quotidiano totalmente speso nel produrre e nel consumare, tuttavia nel terrore continuo che una diminuzione di questo produrre e di questo consumare ci renda ancora più infelici. Un paradosso.

La questione della critica esistenzialista al capitalismo è antica e passa attraverso filosofi, romanzieri, sociologi. E però - hanno ragione quelli come Simonetti - manca di una teorizzazione sistematica, di una struttura onnicomprensiva e risolutiva come pretendeva di essere - ad esempio - quella di Marx nella sua critica al primo capitalismo.

A me in verità questa carenza strutturale non spaventa, anzi non sembra nemmeno tanto un minus: abbiamo visto che fine hanno fatto, le macroanalisi sistematiche e ideologiche, specie quelle con ambizioni definitive. E credo che il pensiero sistematico sia abbastanza figlio dell'Ottocento, dei tentativi di ridurre l'infinita complessità del reale in un unico tomo. Il che non è proprio cosa riproponibile nell'infinito caos mutante della contemporaneità.

Resta tuttavia, come un macigno, quella cosa lì, cioè la denuncia che questo Papa (il quale, sì lo so, è antiabortista, antidivorzista etc etc) sta provando a far transitare da una piccola fetta di tardo-fricchettoni o di eccentrici intellettuali francesi alla discussione mainstream, al dibattito diffuso: l'insostenibilità esistenziale di un modello di produzione e di ripartizione, quindi la necessità di modificare almeno in parte questo modello, di cambiare un po' le coscienze e la politica in questo senso.

E qui viene spontaneo pensare al movimento cosiddetto “decrescitista”, alla cui base com'è noto ci sono i libri del filosofo dell'economia Serge Latouche. Fra i padri di questa corrente di pensiero però c'è anche Nicholas Georgescu-Roegen, l'economista rumeno secondo il quale era necessario ripensare radicalmente un sistema industriale che, in base ai principi della termodinamica, non poteva che assottigliare nel tempo l'energia e le materie prime fino al loro azzeramento. Altri ancora fanno risalire le radici del decrescitismo nel Club di Roma di Aurelio Peccei, a cui il Mit di Boston nel 1972 commissionò il “Rapporto sui limiti dello sviluppo:” uno studio in cui venivano indicati i rischi per l'umanità derivanti da un meccanismo che si regge sul principio di una crescita infinita, a cui veniva contrapposta la necessità di un modello che gradualmente “planasse” verso una stabilità ecologica ed economica.

Secondo Latouche, tra l'altro, il decrescitismo è «l'unico progetto politico in grado di ridare un senso alla sinistra» perché «si fonda su una critica radicale del liberismo e si ricollega all'aspirazione originaria del socialismo».

Per capire se può avere ragione o no, bisogna subito chiarire alcuni malintesi: la decrescita - almeno nelle intenzioni di chi la propone - non è la recessione, cioè la crescita negativa del Pil; è un modello di società in cui le relazioni umane - quindi anche quelle economiche - non sono più finalizzate al Pil, che diventa così solo una fra le tante misurazioni del vivere sociale, decisamente una delle meno importanti per stabilire la qualità di vita di una popolazione. Molto più rilevanti sono gli aspetti immateriali della nostra esistenza, come il tempo libero, le relazioni umane, l'ambiente, la creatività, la convivialità, il piacere della generosità e quello della cultura.

Secondo Latouche, la limitazione dei livelli di consumo e produzione non riporterà ad una vita di privazioni né al “ritorno alla candela”, bensì a un miglioramento complessivo della qualità della vita; e questo avverrà non nonostante la diminuzione dei beni in nostro possesso, ma proprio grazie alla liberazione della schiavitù dell'acquisto compulsivo e dell'iperlavoro necessario per ottenerlo. In termini pratici Latouche propone quindi le sue“otto erre” (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare). Ma qui vi rimando alla lettura diretta se non l'avete già fatta.

In estrema sintesi, comunque, il decrescitismo si basa quindi sull'assunto secondo cui «una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito», come dice lo stesso Latouche: «Viviamo in un mondo dove milioni di lavoratori lavorano sempre di più, troppo, impazziscono, si stressano, si suicidano, e altri milioni di persone invece non lavorano affatto», quindi «lavorare meno è una delle misure per risolvere la disoccupazione, e altre sono la rilocalizzazione e la riconversione ecologica», attuando «un protezionismo sociale per permettere a tutti di lavorare e un protezionismo ecologico per salvare il pianeta», mentre «la concorrenza e il libero scambio sono il protezionismo dei predatori, degli speculatori, delle banche».

Sono idee che hanno impattato diversamente sulla sinistra italiana: si va dal rifiuto caricaturale del decrescitismo, visto come ritorno a una società feudale, povera e contadina; fino all'estremo opposto, cioè all'esaltazione acritica delle teorie di Latouche come se queste costituissero l'equivalente postindustriale del pensiero marxengelsiano. In mezzo, l'area che guarda a quelle di Latouche come positive suggestioni, in fondo molto simili a un filone storico di una parte della sinistra italiana, che va dallo slogan “lavorare con lentezza” propugnato nel 1977 da Radio Alice fino al movimento No Tav e più in generale all'opposizione contro le cosiddette grandi opere.

Decisamente fra i primi, cioè saldamente ancorato a una visione sviluppista, è il pensiero prevalente del Partito democratico. Ai tempi di Bersani questo era proprio un cardine (tanto che l'allora segretario democratico definì «marziano» l'avversario Grillo perché parlava di decrescita felice) ma anche Renzi si è espresso in modo molto chiaro in proposito: «Non usciremo dalla crisi con la decrescita ma creando posti di lavoro e investendo sull'Italia».

Non stupisce la contrarietà verso la decrescita del Pd “dei ceti produttivi”. Anche se la realtà è un po' più sfumata perché Enrico Berlinguer già negli anni Settanta parlava di un “nuovo modello di sviluppo” e su questo ha scritto un libro il docente universitario e deputato di Sel Giulio Marcon, per la collana “I precursori della decrescita”, curata dallo stesso Latouche. Sostiene Marcon a proposito di Berlinguer: «I suoi discorsi sull’austerità, i suoi comportamenti e il suo temperamento sobrio e misurato, la sua tempra morale indicano le tracce di una ricerca politica e di una dimensione umana che alludono - anche esplicitamente - alla critica della hybris della società capitalistica e di un modello consumistico che a partire dagli anni Sessanta stava corrodendo e corrompendo la società italiana e l’Occidente».

Per quanto riguarda i Cinque stelle invece la vicinanza alle tesi di Latouche è più profilata e chiara. Sia nei comizi sia nel suo blog, Beppe Grillo cita spesso il filosofo francese per argomentare che «la crescita non crea lavoro, crea solo disperazione»; e il capitolo “energia” del programma M5S sembra decisamente ispirato al concetto di decrescita: impianti di micro-cogenerazione, incentivazione della produzione distribuita di energia termica con fonti rinnovabili, battaglia contro le inefficienze e gli sprechi attuali nella produzione termoelettrica che non sono accettabili né tecnologicamente e così via.

Fin dai suoi show immediatamente successivi alla defenestrazione dalla Rai, Grillo aveva iniziato a proporre riferimenti sempre più frequenti agli sprechi assurdi e antiecologici della società consumistica. Come nel celebre sketch sullo spazzolino da denti: «Di cosa è fatto uno spazzolino? Di plastica. Da cosa si ricava la plastica? Dal petrolio. E’ rosso perché lo abbiamo colorato e ci abbiamo aggiunto un po’ di cloruro. Ogni tre mesi il tuo dentista di fiducia ti dice, devi cambiare lo spazzolino. Quanti ce ne saranno in Italia in questo momento? Venti milioni? Ogni tre mesi venti milioni vanno nell’immondizia, finiscono in un forno, vengono bruciati. I cloruri diventano diossina, vanno nell’aria. Piove, la diossina va nel mare, viene assorbita dal plancton, il pesce mangia il plancton, tu esci, vai al ristorante, mangi il pesce e ti sei mangiato il tuo spazzolino».

L'avvicinamento vero di Grillo al pensiero decrescitista è tuttavia successivo e avviene grazie all'incontro con studiosi come Mauro Gallegati (che in realtà sembra più vicino alle idee di Joseph Stiglitz e di Fritjof Capra sulla “crescita qualitativa”) e Maurizio Pallante (fondatore del fondatore del Movimento Decrescita felice, spesso ospite nel blog del comico genovese). Un altro riferimento importante per Grillo in questo percorso è lo scienziato Marco Morosini, docente al Politecnico federale di Zurigo ETH, conosciuto dopo uno spettacolo al teatro Smeraldo di Milano nel 2003: è lui che gli spiega l'insostenibilità dello sviluppo attuale e poco dopo inizia a inviargli idee e proposte concrete. «La prima era quella di ridurre il consumo di energia da 6000 a 2000 watt pro capite all'anno: è il cardine della scelta energetica del governo svizzero nel 2002 come obiettivo entro il 2050», racconta Morosini. E poi: «Ridurre il consumo di materie prime da 40 a 20 tonnellate pro capite l'anno, per limitare il saccheggio che stiamo facendo del pianeta». E ancora: «La settimana lavorativa di 30 ore da subito e di 20 ore tra vent'anni, allo stesso stipendio, perché un terzo del Pil che produciamo fa danni, un terzo serve a riparare i danni e solo un terzo è utile, basta concentrarsi su quest'ultimo». È così che Grillo arriva alle sue posizioni attuali, espresse nel libro-manifesto scritto con Gianroberto Casaleggio: «La vita non è lavorare 40 ore alla settimana in un ufficio per 45 anni. È disumano. Stavano meglio gli irochesi e i boscimani che dovevano lavorare un’ora al giorno per nutrirsi».

Alle spalle di tutto questo ci sono, come accennato, molte riflessioni di pensatori che già in passato hanno posto o affrontato la questione: da un padre dell'economia come Thomas Malthus, due secoli fa, al sociologo americano Thorstein Veblen, agli inizi del Novecento, fino al filosofo ungherese Karl Polanyi, negli anni Cinquanta. Già allora si cercava di separare «la crescita materiale misurata dal Pil e lo sviluppo inteso come progresso di valori civili, sociali e culturali».

Oggi la prevalenza di quest'ultimo sembra avere tuttavia bisogno non solo di mutamenti legislativi in termini di politiche energetiche ed economiche, ma soprattutto di una grande trasformazione valoriale e umana, a partire dall’istruzione primaria e dall’educazione familiare. E non è un caso che uno dei contemporanei più attenti verso il decrescitismo sia il giapponese Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakai: l'associazione buddista secondo la quale qualsiasi grande cambiamento sociale deve passare attraverso la trasformazione di ogni essere umano, da raggiungere con il dialogo e la pedagogia.

Adesso parole simili sono arrivate dal capo della Chiesa cattolica, appunto, che ha circa un miliardo di credenti. E che nella sua Enciclica cita cinque volte il concetto di "interconnessione tra tutti gli esseri viventi", che non è certo esclusivo dei buddisti (c'è pure nel film "Avatar", per capirci) ma di quel filone di pensiero tuttavia sembra parente stretto.

Forse ha ragione l'iperviluppista Simonetti: sono tutte cazzate ed è una "nebulosa ideologica piena di errori tecnici". Ma credo che se con queste cazzate non si faranno i conti, in qualche modo, il vecchio capitalismo vada a incocciare col suo musone contro il muro. E non in tempi biblici.

DALL'ESPRESSO BLOG - PIOVONO RANE

Difficile fermare un treno nella sua folle corsa,al massimo abbiamo visto alternarsi diverse velocità e se in occidente va parecchio piano,in oriente ha la velocità di quello giapponese sui pattini d'aria.
Come potrebbe pensare alla decrescita il capitalismo,con le ore lavorative dimezzate e gli stipendi uguali, quando i componenti che ne fanno parte,quelli più ricchi,pensano al panfilo sempre più grande e accessoriato.

Ieri Marchionne ha dato la mano al Papa più di sinistra che sia mai esistito,chiunque può ragionevolmente pensare che quei messaggi non verranno recepiti,viene tollerato dai potenti definendolo con tutta probabilità il capo cattolico con le sue utopie.

Lei ha concluso che si andrà a sbattere contro un muro,tutti quanti,nessuno escluso,un'altra casa,un altro pianeta non esiste per traslocare, bene,lo sanno anche loro ma non cederanno di un millimetro, il potere non si lascia,quei pazzi che lo faranno andranno automaticamente in disgrazia,e se ci sarà il titolo "the end" un giorno,la differenza sarà su come i comuni mortali avranno passato i loro giorni,quei pochi anni che ci dividono dal trapasso,ma che fanno una certa differenza.

per eventuali notifiche - iserentha@yahoo.it

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