mercoledì 18 marzo 2015

Un anno politicamente disgustoso


















Renzi, il M5S e la sete del nuovo

di Alessandro Gilioli

Il modo in cui François Hollande ha vinto le elezioni del 2012 è al centro di un lungo articolo su "Le Monde Diplomatique" (allegato al "Manifesto" di oggi) e probabilmente verrà studiato nelle scuole di politica. È stato infatti il caso più eclatante, nella storia d'Europa, in cui è stato ribaltato il vecchio luogo comune secondo il quale per conquistare le urne un leader di sinistra dovesse, in campagna elettorale, smorzare i toni e accarezzare il centro. Hollande tre anni fa ha fatto il contrario: è arrivato all'Eliseo grazie a parole e programmi molto radicali e di grande durezza verso l'establishment economico-finanziario (salvo poi implementare politiche assai diverse, una volta eletto).

Qualcosa di simile, secondo alcuni, si può rintracciare anche prima, cioè nel successo nel 2008 di Barack Obama: che ha raggiunto la Casa Bianca con la fama di "socialista", che negli Usa vuol dire semirivoluzionario. Pure Zapatero nel 2004 si propose con un programma molto forte sull'uguaglianza e sui diritti. Di sicuro in Grecia Alexis Tsipras ha appena vinto per la manifestata radicalità della sua proposta. E se Podemos oggi è in testa ai sondaggi spagnoli, è per la stessa ragione: cioè l'esigenza di un cambiamento totale.

Insomma, sembra proprio superata l'epoca in cui una forza d'opposizione, per andare democraticamente al potere, aveva come primo compito quello di tranquillizzare "i moderati". Oggi sembra valere sempre di più l'opposto: per vincere bisogna proporre un cambiamento secco, bisogna segnare (almeno mediaticamente, quindi nella percezione) una cesura forte rispetto al presente e/o al passato recente.

Le ragioni di questa trasformazione nelle dinamiche della creazione del consenso sono diverse e non è qui il caso di approfondirle: si va dalla recessione economica alla crisi di rappresentanza dei partiti del '900, giù giù fino all'insicurezza sociale e culturale dell'Europa globalizzata. Ma quello che conta è il risultato, cioè la sete diffusa di cambiamento il più netto possibile.

Leggendo l'ultimo libro di Marco Damilano "La Repubblica del selfie", si capisce bene come uno degli errori fondamentali del vecchio Pd (quello esistito fra il 2008 e il 2013) sia stato non comprendere per nulla questo megatrend.

L'inseguimento del centro moderato, il continuismo e la stabilità di sistema sono stati infatti i tratti caratterizzanti di tutta quella parabola, specie (ma non solo) con la segreteria Bersani, quella sempre alla ricerca di un accordo di maggioranza con Casini e poi anche con Monti.

Che quella del vecchio apparato Pd fosse una strategia completamente sbagliata è stato abbastanza evidente fin dal 2011-2012: quando non solo stava montando il Movimento 5 Stelle, ma in tutti i Comuni o quasi in cui si è votato in quel biennio hanno vinto candidati "radicali" o comunque con quell'immagine, purché rappresentassero una rottura rispetto al passato e al sistema (Milano, Napoli, Genova, Cagliari, Parma etc; il caso più emblematico in questo senso è stato forse quello di De Magistris, sull'onda dello 'scassiamo tutto" e praticamente senza alcun partito alle spalle).

Insomma il vecchio Pd ha creduto che valesse ancora l'insegnamento che aveva caratterizzato il Pci dalla Svolta di Salerno di Togliatti fino al compromesso storico di Berlinguer. Invece, era cambiato tutto. Ma per capirlo c'è voluta la sberla del febbraio 2013, con il M5S primo partito in Italia.

Poi è arrivato Renzi, appunto.

E Renzi predicava il nuovo, la disrupture. Anzi, addirittura la rivoluzione. Con lui, tutto è stato mediaticamente proposto proprio come una rivoluzione: dalla scuola all'Italicum, dal lavoro alle tasse. E anche l'indirizzo a cui si poteva scrivere per proporre cambiamenti nella pubblica amministrazione era "rivoluzione at governo.it".

Insomma, quello che si impara dal libro di Damilano è un assunto difficilmente discutibile: e cioè che Renzi ha interpretato e gradualmente assorbito una buona parte della sete di cambiamento diffusa nell'opinione pubblica italiana, che il vecchio Pd non aveva saputo interpretare (e neppure i "tecnici" di Monti, naturalmente).

Damilano tuttavia sottolinea anche le responsabilità di altri: ad esempio del Movimento 5 Stelle, che fino alla primavera del 2013 su questa maggioritaria area di protesta e di desiderio di innovazione aveva l'egemonia (se non il monopolio) ma poi l'ha persa, per l'incapacità dei suoi capi e dei suoi rappresentanti di fare politica veramente, una volta entrati nelle istituzioni.

Così Renzi - il giovane Renzi che in ogni discorso si contrappone ai sessantenni imbullonati alle poltrone da tre decenni o più - ha spacciato un ricambio generazionale per un cambiamento politico; così si è proposto come homo novus alternativo ai salotti buoni, a Cernobbio, agli eurotecnocrati, ai sindacati, ai burocrati, ai professoroni e così via.

Una gigantesca e riuscita operazione d'immagine: proprio mentre realizzava punto per punto, ma con il sorriso dell'innovatore, la lettera della Bce del 15 agosto 2011.

Renzi ha saziato insomma, nell'immaginario, almeno una parte della sete di cambiamento italiana che tra il 2011 e il 2012 rischiava di terremotare l'establishment, specie quella più generazionale. E anche questo spiega l'estrema difficoltà, oggi, di qualsiasi cosa che voglia rappresentare un cambiamento rispetto a lui - subito mediaticamente ricondotta nell'alveo del vecchio e della conservazione.

Quanto possa durare quest'appagamento, poi, è questione che dipende da molti fattori: a partire da quelli di cui si parlava ieri, in gran parte economici ma anche un po' relativi alle possibili alternative.

DALL'ESPRESSO BLOG - PIOVONO RANE

Ripeto nuovamente il concetto,tutto ciò che sta capitando da un anno a questa parte lo si poteva evitare con un piccolo sforzo d'intenti tra Bersani e Grillo,ormai è come piangere sul latte versato,teniamoci i disgustosi spettacolini,che vanno dalla corruzione,all'inchiappettamento dei soliti noti e nel favorire il suo vecchio compagno di merende nazarene.

Eh già,prima per Squinzi era il job act il problema,ora è l'economia che non c'è,se non si fa una guerra totale alla corruzione in questo paese,cosa che non si può permettere il toscano,i potenziali investitori esteri si terranno parecchio lontani da questo paese intriso di delinquenti.

E' diventato un problema sbattere fuori dal Ministero uno come Lupi,alla faccia della rottamazione.

per eventuali notifiche - iserentha@yahoo.it

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