martedì 10 febbraio 2015

Dall'eutanasia al possibilissimo testamento biologico



Eutanasia, venti secoli di doppiezza

di Alessandro Gilioli

A sei anni dalla morte di Eluana Englaro, l’Associazione Luca Coscioni ha rilanciato la sua battaglia per la legalizzazione dell’eutanasia, con un pubblico appello al presidente della Camera Boldrini affinché venga discussa la legge di iniziativa popolare in merito, finora totalmente ignorata tanto dalle commissioni quanto dai capigruppo. La campagna è arrivata anche in tv, alle Iene, con i video di #LiberiFinoAllaFine.

E’ ovviamente difficile parlare di eutanasia, e più in generale di diritti civili, in una fase di crisi economica: infatti scatta pavloviana (specie tra i nemici dei diritti civili) la classica reazione benaltrista, insomma ben altri sono i problemi, dalle tasse alla disoccupazione. Si tratta tuttavia di una sciocchezza, perché non si è mai visto nella storia un Paese in cui i diritti civili abbiano rallentato quelli sociali: più spesso invece la negazione degli uni si è accompagnata con la negazione degli altri. Nello specifico è poi una sciocchezza doppia, perché il divieto di eutanasia implica anche un “divide” sociale tra chi può disporre del proprio corpo fino all’ultimo (recandosi ad esempio in una clinica privata svizzera) e chi invece per morire deve gettarsi dalla finestra. Un po’ come il divieto di eterologa costituiva un privilegio che escludeva chi non aveva i soldi per andare in Spagna, e proprio per questo la Consulta l’ha cancellato.

La Coscioni dunque ci riprova: e viva le battaglie di minoranza, che tuttavia se ascoltate diventano di maggioranza, come il divorzio e l’aborto.

Ma oltre il puro livello della diatriba politica, in questi stessi giorni esce in libreria un saggio sul tema che può fornire alla discussione un più solido substrato storico e culturale. È “Andarsene al momento giusto”, di Marco Cavina, edito dal Mulino.

Cavina è un docente di Storia del Diritto a Bologna, con un robustissimo elenco di pubblicazioni alle spalle, e affronta il tema appunto da storico: quando è nata l’eutanasia e come è stata affrontata nei vari secoli e nelle varie culture europee, tanto nelle leggi quanto nella prassi quotidiana.

Il primo luogo comune che Cavina sfata è l’idea che l’eutanasia sia un problema contemporaneo. La questione, ci spiega, era fortemente avvertita già in ambito classico: e nell’antica Grecia il farmacologo Trasia di Manichea aveva inventato una pozione a base di cicuta e papavero che garantiva «morte facile e senza dolore», trovando clienti e fama al punto da essere citato da Teofrasto.

Qualche secolo dopo, a Roma, anche un amico di Seneca, Tullio Marcellino, «essendo colpito da una malattia non già guaribile» si diede la morte senza dolore, sebbene in questo caso le tecniche utilizzate non ci siano giunte e si parli genericamente di abluzioni. In ogni caso, la cultura dell’antica Roma era tutt’altro che negativa e proibizionista verso la dolce morte: anzi questa era privilegio dei patrizi che se la procuravano grazie ai ritrovati prodotti da medici compiacenti, circondandosi quindi nel momento finale di servi obbedienti, nelle vesti di quelli che oggi chiameremmo badanti.

Cinque o sei secoli di approccio positivo e trasparente verso l’eutanasia finiscono tuttavia con l’avvento del Cristianesimo, secondo il quale la vita è data da Dio e solo da Dio può essere tolta. In sostanza, viene sottratto alle persone il diritto sul proprio corpo. Di qui la condanna tanto del suicidio (accettatissimo invece in epoca pagana) quanto dell’eutanasia.

E qui inizia una divaricazione tra leggi formali e pratiche popolari, che il libro di Cavina racconta benissimo, anche con approfondimenti di carattere locale. In sostanza: se la cristianità proibiva l’azione del procurare o procurarsi la morte dolcemente (anzi, in alcuni teorizzazioni estreme ed eretiche raccomandava i tormenti di fine vita per evitare quelli eterni nell’Aldilà), la prassi comune aggirava o ignorava l’ordine; e le persone si arrangiavano quindi in vario modo per evitare eccessi di sofferenze o agonie prolungate, specie nei vecchi o nei malati senza speranza.

Chi ha letto il romanzo di Michela Murgia sa già cos’era una “accabadora”, ma Cavina ci rivela che sistemi simili erano diffusi quasi ovunque in Europa, dalle popolazioni germaniche e slave fino a quelle mediterranee. L’usanza di un’ascia di pietra benedetta con cui spaccare con un colpo secco la testa di chi stava a letto più o meno senza sensi, ad esempio, si ritrova dalla Gran Bretagna alla Francia; sempre in Inghilterra, era pratica non rara che i parenti soffocassero il malato con il cuscino; o ne procurassero un rapido decesso sottraendogli lo stesso cuscino con un movimento rapidissimo e deciso, in modo che il cranio sbattesse sul legno. Nella penisola iberica e in America latina esisteva invece il “despenador”, che saliva fisicamente sul malato e gli spezzava il petto con il ginocchio e lo strangolava.

E così via, di landa in landa, fino all’età moderna: quando si è almeno riaperto il dibattito pubblico sulla liceità del suicidio, più o meno assistito, e sulla dolce morte procurata a chi non aveva speranze ma solo indicibili sofferenze.

Nell’Ottocento tedesco si è quindi ricominciato a parlare di eutanasia medica: e qualche dottore ha iniziato anche a rivendicare il diritto di accelerare il decesso per i pazienti senza possibilità di guarigione e afflitti da orribili dolori, che disperatamente chiamavano la morte. Sul finire dello stesso secolo lo scienziato svedese Alfred Nobel, quello che ha dato nome al premio, propose al capo del governo italiano Francesco Crispi di istituire due cliniche, una a Roma e una a Milano, per garantire la dolce morte con gas asfissiante. Il politico italiano cortesemente declinò.

Forse in effetti era un po’ troppo, per l’epoca, e del resto venti secoli di divieti formali e di contemporanee pratiche clandestine non si cancellano in un attimo. Ad esempio, in questo senso, personalmente ricordo che sei anni fa intavolai una discussione sul caso Englaro con un collega cattolico – tutt’altro che integralista – e la sua tesi era proprio questa: lasciamo che queste cose si facciano di nascosto, come si sono sempre fatte, ma evitiamo di stabilirle per legge perché sennò si sancisce un principio contrario alla vita.

Tornando al libro di Cavina, alla fine questo ci mostra come «il fervore di movimenti e mobilitazioni dei nostri giorni in favore dell’eutanasia non nasce dal nulla», ma da una solidissima e radicata tradizione eutanasica le cui pratiche sono avvenute alla luce del sole nel periodo classico greco-romano (quando anzi erano un valore, un privilegio) e si sono perpetuate nel segreto (e in un’omertosa accettazione diffusa, talvolta anche nella Chiesa) durante i lunghi secoli del pensiero presecolare.

Fin qui Cavina, che è studioso e non attivista.

Che sia tempo di uscire dall’ipocrisia e dai sotterfugi, dando dignità legale al principio secondo cui ciascuno è padrone del proprio corpo, è invece cosa che fortemente aggiungo io.

DALL'ESPRESSO BLOG - PIOVONO RANE

Direi che senza andare verso direzioni dei Paesi Bassi,dove mi pare si sia esagerato nel concetto e nelle possibilità del diritto all’eutanasia,penso che sia socialmente utilissimo il testamento biologico,affinchè non ci sia accanimento terapeutico su alcune malattie drammatiche e senza speranza,personalmente ha fatto specie ad esempio la notizia di pratica di eutanasia per gravi forme di depressione,il suicidio assistito non mi convince,visto e considerato che la pratica in Svizzera è ricorrente.

Nonostante se ne parli dai tempi dei poveri Piergiorgio Welby e Eluana Englaro,nulla si è materializzato in legge fino a questo momento,toccherebbe far sapere ai soliti bigotti-baciapile presenti ovunque e soprattutto tra gli scranni del parlamento,che una legge di questo tipo diventerebbe facoltativa,quindi non obbligatoria,ma un’opportunità per chi la vorrà praticare.

Anche se come le unioni di fatto,o la prostituzione regolamentata e legalizzata che ha trattato pochi giorni fa,sono chimere irraggiungibili in un paese assurdo come il nostro.

per eventuali notifiche - iserentha@yahoo.it

Nessun commento: