sabato 7 giugno 2014

Il mose,Galan e l'intero paese ormai una fogna



Inchiesta Mose: ‘Giancarlone’ Galan, il Nordest e i due mutui da pagare

di Andrea Scanzi

Non se lo aspettava nessuno, o così amano dire elettori e amici di Giancarlo Galan. Quello che, per una professoressa del liceo, all’Università non ci sarebbe neanche dovuto andare: “È un ragazzo goffo, non si impegna e vuole sole divertirsi, al massimo potrebbe fare l’idraulico”. Quello che chiamano “Pantagruele” e “Giancarlone”, padre medico e partigiano nel Partito d’Azione, fratello oculista notissimo. Quello che, a leggere un appassionato articolone di Salvatore Merlo ieri sul Foglio, “si veste con cura da quando si è risposato, ha cambiato moglie e sarto, è mite e garbato e ha un buon rapporto con il mondo”.

Galan, durante Tangentopoli, tifava per i magistrati: “Non ho mai sopportato corrotti e corruttori. Non tollero le malversazioni, le ruberie. Con i ladri mai”. Ora sembra tutto cambiato. I magistrati sospettano che gli ingenti lavori di ristrutturazione della sua villa di Cinto Euganeo siano stati pagati dall’imprenditore Piergiorgio Baita: 700 mila euro per il corpo principale e 400 mila per la “barchessa”. La moglie, Sandra Persegato, ha difeso il marito: “È una gran persona, gli italiani sono ingrati. Lavori gratis? Bugie, pago due mutui”. Difesa accorata, che pare stridere con i dati scovati dalla Guardia di finanzia. Tra il 2000 e il 2011, Galan e famiglia hanno dichiarato poco più di 1 milione e 413 mila euro; in quello stesso periodo hanno speso 2 milioni e 695 mila euro: come si spiega quella differenza di oltre un milione e 281 mila euro?

Il caso Galan sembra una sorta di remake sbilenco di Signore & signori, il film di Pietro Germi che 49 anni fa vinse il Grand Prix della Giuria del Festival di Cannes. Signore & signori nacque in pieno boom economico, le ruberie presunte dello scandalo Mose hanno per sfondo una crisi economica deflagrante (che colpisce quasi tutti, e Galan è tra i pochi ad abitare perennemente quel “quasi”). I punti di contatto, però, ci sono. Per esempio la location, il Nordest. Germi scelse – senza mai nominarle – Treviso e la Contrada Granda di Conegliano, Galan si muove tra Padova e Venezia. Germi individuò una piccola città come scenario emblematico di un’apparenza festosa e sgargiante che nascondesse segreti e bassezze. Un romanzo corale per una feroce satira sociale.

Il Mose è farsa più che satira, ma lo scenario è analogo. C’è il gentiluomo di provincia, c’è il riccone che cerca nel lavoro – e nella esibizione della conquista femminile – la rivalsa per un passato difficile. C’è la borghesia, verosimilmente piccola piccola, che sgomita per avere un posto in prima fila nei circoli che contano. C’è la villa immensa e ostentata, quasi che pure il confine tra un Palladio e un Galan fosse diventato ormai labile. E c’è il Nordest, appartenenza prim’ancora che paesaggio. L’autobiografia di Galan, edita nel 2008, si intitolava non a caso Il Nordest sono io. Nella prefazione, il professor Giuseppe De Rita (con cui Galan si è laureato) garantiva: “Una così forte libertà espressiva sarebbe un puro fenomeno caratteriale se non fosse intimamente legata a un animo liberale e a un convinto primato della cultura della diversità”. Parole in antitesi con il giudizio di Fabrizio Cicchitto: “Galan? Un Gauleiter, è arrogante e cattivo”.

Il Nordest, nel percorso di Galan, c’è sempre. Nella sua adolescenza da ragazzone che “quando mangiava si impataccava la cravatta e la giacca” (racconta il Foglio), nella sua idea di partito prima territoriale che ideologico (al punto da trovare affinità con Riccardo Illy e Massimo Cacciari). Soprattutto: nella terra come tramite per il riscatto e il successo. Galan è descritto come spiritoso e bon vivant. Anche autoironico: nove mesi fa accettò i fischi alla festa del Fatto Quotidiano; lui ci mise la faccia, i colleghi no. Ha cavalcato finché ha potuto l’onda lunga del Nordest placido e danaroso, che nel frattempo ha finito col somigliare più ai romanzi di Carlotto che ai colori di Germi. Di quel film, mezzo secolo dopo, è rimasta la tinta meno desiderabile: quella fosca, cinica e senza speranza. Nelle vicende del Mose, più che la scaltrezza del dongiovanni Toni Gasparini (Alberto Lionello), si ritrovano l’ipocrisia che condannava il ragionier Bisigato (Gastone Moschin) e l’amoralità dei paesani che si approfittano di una ingenua sedicenne di campagna. La Chiesa celerà i nomi dei colpevoli, la stampa accetterà le omissioni e perfino il padre della ragazza si farà comprare, anteponendo le brame di ricchezza a un gusto minimo per la morale. Ieri come oggi.



Se un pacioccone apparentemente innocuo come il personaggio descritto dall'articolo, frega tutti quei soldi alla collettività su un progetto organizzato ad hoc per non funzionare mai,il tutto al di là della pellicola portata a confronto da Scanzi,a mio parere fotografa benissimo l'intero paese.

Altro che daspo e leggi severe per le ruberie politiche-imprenditoriali alla collettività,sarò pessimista ma il paese pare come quel videogames nel quale più mostri si eliminano,più ne arrivano,forse sono solo le opportunità a fare la differenza,il test nazionale che dura da decenni pare dia questi risultati.

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