mercoledì 25 dicembre 2013

Amarcord:Enzo Biagi intervista Rita Levi Montalcini



(Torino, 22 aprile 1909 – Roma, 30 dicembre 2012)

“La mia vita tutta intuito e niente potere E nemmeno marito”

RITA LEVI MONTALCINI: “A VENT’ANNI DISSI A MIO PADRE DI NON AVERE NESSUNA INTENZIONE DI AVERE NÉ FIGLI NÉ UNA FAMIGLIA”. “LA MIA VERA VOCAZIONE ERA CURARE IL VICINO CHE STAVA MALE. SONO STATA INCERTA TRA LA CARRIERA SCIENTIFICA O FARE IL MEDICO. MI È STATO IMPEDITO L’UNO E L’ALTRO. ALLORA HO MESSO SU UN LABORATORIO IN CAMERA DA LETTO E LÌ HO FATTO QUELLE SCOPERTE CHE MI HANNO PORTATO A STOCCOLMA”

di Enzo Biagi

Professoressa Montalcini lei è la sola donna italiana ad avere ricevuto il Nobel in discipline scientifiche. Come ha avuto la notizia di questo riconoscimento?

Il giorno prima che fosse reso noto ero a Stoccolma per una conferenza. Al termine il direttore della conferenza ci disse: “Tutti voi dovete immediatamente inviare la relazione scritta”. Poi si rivolse alla sottoscritta: “Lei non lo dovrà fare. Spero di rivederla presto”. Prima della partenza mi chiesero se volevo rimanere altri due giorni. Risposi che per impegni dovevo partire. Quando me ne andai non lo sapevo che avrei ricevuto il Nobel. Il giorno dopo, ero già a Roma, mi arrivò la telefonata con la notizia.

Come ha vissuto il giorno della consegna del premio?

È stata una bellissima cerimonia, ma non mi ha colpito più di tanto, ero preparata all’incontro con il re e con le altre personalità. Vedevo gente intorno a me che piangeva, che mandava fiori, io, invece, ho partecipato con un certo distacco a quelle emozioni. Le giornate importanti sono state quando ho fatto le scoperte scientifiche, quelle sì che hanno inciso nella mia vita.

Lei si accorse subito dell’importanza della sua scoperta sulla crescita della fibra nervosa?

Me ne sono resa conto immediatamente, perché quella scoperta andava contro i dogmi che sostenevano che la nostra vita è segnata dal programma genetico. È vero per gli insetti, per i più bassi livelli tra gli invertebrati e i vertebrati, ma non per la vita dell’Homo sapiens. Noi siamo programmati dai geni, in parte sì, ma è importante l’influenza che esercita la parte epigenetica: l’ambiente, le ore della prima infanzia, perché decidono come ci comporteremo nel futuro. Io avevo scoperto una molecola che interagiva con il sistema nervoso e questo era contro il dogma che diceva che invece il sistema nervoso era rigidamente programmato. Gli insetti sono esattamente uguali ai loro progenitori di seicento milioni di anni fa, l’Homo sapiens, invece, differisce dall’australopiteco non solo nel programma genetico ma per l’ambiente nel quale vive che può modulare completamente il suo modo di agire.

Che qualità deve avere un ricercatore?

L’impegno, l’entusiasmo e l’intuito. Da parte mia non c’è stata razionalità, ho fatto la scoperta per intuito, non ho mai avuto capacità raziocinanti. La biologia molecolare la conosco, ma non sarei mai stata una buona molecolare . Quando ho raggiunto l’obiettivo, è stato grazie all’intuito di andare contro corrente, non credere a ciò che era scritto nei libri sul sistema nervoso, l’intuito mi ha fatto capire quello che gli altri non capivano. Ho sempre lavorato fuori dalla norma sin dalla prima volta, e non ho più smesso. Ripeto: impegno, entusiasmo, intuito e tanta, tanta fortuna.

E un medico?

Come tutti, dall’artista, al ricercatore, all’operatore sociale, il medico deve impegnarsi nel suo lavoro. Deve credere nei valori e aiutare al massimo i malati.

Quali sono i limiti morali che uno scienziato si deve porre?

Esattamente gli stessi di tutti gli altri. Uno scienziato deve prevedere gli sviluppi di una scoperta? Quando, per esempio, Fermi ha scoperto la fissione dell’atomo, quando Watson e Crick hanno scoperto il Dna, non potevano prevedere gli sviluppi. È difficile per lo scienziato prevedere, del resto non si può mettere il chiavistello al cervello. Noi uomini differiamo dagli animali per questo formidabile sviluppo della neocorteccia cerebrale. La ricerca deve continuare ma sotto controllo. Tuttavia il controllo è difficile da portare avanti perché molte cose non sono controllabili.

Lei è religiosa?

Oh no, sono laica al cento per cento. Tuttavia ho il massimo rispetto per tutti, la religione è un fatto personale e ognuno ha il diritto di essere religioso o no. Io sono laica.

Nei momenti di tristezza e di disperazione quando molti si rivolgono a Dio lei come si regola?

Io ho cercato in me la forza. Come sto facendo in questo momento per la perdita della vista, che è grave, ma ancora di più la perdita di persone care come mio padre.

Lo chiesi anche a Primo Levi. Cosa significa essere ebreo?

Io e lui siamo stati ebrei di complemento. Abbiamo scoperto di essere ebrei quando ci hanno considerato di razza inferiore. Prima né io né lui lo sapevamo. Non gli ho mai dato tanta importanza, a casa mia non si era religiosi, non eravamo osservanti, non sono mai andata in sinagoga se non per la morte di mio padre.

Essendo la sua famiglia ebrea, la scuola, gli amici, le facevano sentire qualche differenza?

No, quando ero piccola le bambine prima di giocare chiedevano: “Cosa fa tuo papà e qual è la tua religione?”. Per me era facile rispondere che mio papà era ingegnere. In quanto alla religione mio padre mi aveva insegnato che ero una libera pensatrice, lo sono diventata a tre anni, prima di sapere cosa volesse dire pensare. Quindi rispondevo: “Mio padre è ingegnere e io sono una libera pensatrice”.

E delle ingiurie verso gli ebrei?

Le ho sempre ignorate. Erano talmente di basso livello che non meritavano perdere tanto tempo di parlare di queste cose.

Ha avuto paura?

No, mai. La mia vita è stata tanto fortunata che la paura non so dove sta di casa. Ho una forte tendenza a vedere tutto con ottimismo anche le cose che non lo sono, come essere stata dichiarata di “razza inferiore”.

Come ricorda la vita di famiglia nella Torino della sua giovinezza?

Amavo mia madre, temevo mio padre. Poi dopo la sua morte ho riconosciuto quanto dovevo a lui. Era l’epoca vittoriana, l’epoca in cui l’uomo dominava. Mia madre era sottomessa come tutti noi. Mio padre era un uomo di grandissima intelligenza, generoso, amava molto noi figlie. Siccome le sue tre sorelle si erano laureate e non avevano avuto, secondo lui, una vita felice, aveva deciso che le tre figlie non dovevano coniugare la vita professionale con quella matrimoniale. A vent’anni gli ho detto di non avere nessuna intenzione di avere né un marito né figli, che mi lasciasse fare quello che volevo.

So che lei era incerta se scegliere tra filosofia e medicina.

Prima della morte della mia amata governante avevo questo dubbio, dopo, invece, mi sono resa conto che la mia vera vocazione non era la filosofia ma curare il vicino che stava male, così ho deciso di fare medicina. La prima idea fu quella di partire per l’Africa come infermiera per curare i lebbrosi. Poi, una volta laureata, ero allieva del professor Giuseppe Levi, padre di Natalia Ginzburg, grande scienziato, sono stata incerta se fare la carriera scientifica oppure fare il medico. Mi è stato impedito l’uno e l’altro. Allora ho messo su un laboratorio in camera da letto, piccolissimo, e lì ho fatto quelle scoperte che mi hanno portato a Stoccolma. Poi ci sono stati i bombardamenti del giugno 1940. Ho lasciato, con la famiglia, Torino, siamo andati in un piccolo paese della provincia di Asti. Lì ho continuato le mie ricerche in cucina, facendo altre scoperte. Quando sono arrivati i nazisti siamo andati a Firenze con un altro nome. Sono entrata nel Partito d’azione, ma non attiva in quanto con me c’era mia madre e tremavo per lei. Quando, nell’agosto del ’44, Firenze è stata liberata, mi sono dedicata alla cura di quelli che venivano dal Nord occupato, dalla linea gotica, persone, bimbi morenti. Io ero medico, assistevo i feriti e i malati giorno e notte. Avevamo messo su un ospedale in una caserma diroccata. Morivano tra le cinquanta e le sessanta persone al giorno. Alla fine della guerra ho continuato la carriera di medico. Poi sono stata invitata negli Stati Uniti perché le mie pubblicazioni scientifiche erano diventate note. Ho ricevuto l’invito nel ’46 e sono partita nel ’47 insieme a Renato Dulbecco.

Lei è partita su una piccola nave polacca per gli Stati uniti, lasciando il compagno che voleva sposarla. Ha qualche rimpianto?

Nessun rimpianto. Quando sono partita ho lasciato Guido. Ero consapevole che non sarebbe stata possibile una vita con lui. Guido era protestante, ma questo non c’entra, era un bravo medico, ma risentiva della mia dedizione scientifica e la vita insieme non sarebbe stata possibile.

Lei ha detto che se avesse avuto una famiglia l’avrebbe trascurata per il lavoro. Nella sua storia il lavoro che cosa rappresenta?

Tutto. Direi che ancora oggi il lavoro, occuparmi dei problemi sociali, sono le mie passioni. Il lavoro è il piacere. La ricerca ha sempre esercitato in me un grande fascino. Il lavoro era tutto, non ho mai cercato né il piacere dello svago, né della società, ero lontana da queste cose, mi lasciavano totalmente indifferente.

Gli incontri decisivi nella sua storia.

Giuseppe Levi per la sua personalità, non per il tipo di ricerca che detestavo, io non ero una istologa. Lo stimavo tantissimo, era un antifascista di alta moralità. È stata la figura che ha inciso di più nella mia vita.

Come ha vissuto l’esperienza americana?

Bene. Fortunatamente mentre la vivevo, non ero consapevole delle deficienze che oggi sento raccontare. Quando ritorno negli Stati Uniti sento acutamente l’errore di questa società così tesa al successo e al benessere. Oggi non potrei più vivere in America, ma quando ci vivevo ci stavo bene. Ero alla Washington University, erano tutti ebrei russi e polacchi, fisici di un’intelligenza eccezionale. I miei rapporti erano con loro e non con gli italiani, che erano tutti fascisti, innamorati di Mussolini, nonostante fosse morto da tempo. Piccola gente.

Da donna lei mi sembra come Cristoforo Colombo, è entrata in un mondo che era più maschile che femminile, forse un’eccezione come madame Curie, come si è trovata in questo mondo di uomini?

Benissimo, non ho mai avuto problemi né per essere ebrea, né per essere donna. Come donna mi hanno accettato appena arrivata, come anche in Italia.

Parliamo di un argomento che mi sta a cuore:la vecchiaia. Quand’è che uno è vecchio?

Dipende da noi. Se viviamo in paesi in via di sviluppo non si è mai vecchi perché si è necessari alla società. In paesi come gli Stati Uniti, dove conta la bellezza, il fisico, si è vecchi a cinquant’anni. Tra poco ho novant’anni, sono nella quarta età, la vivo con serenità e non mi pesa affatto, almeno fino a quando non ci sarà un buco nel cervello.

Il cervello non invecchia?

Certamente invecchia, muoiono centinaia di migliaia di cellule, ma il cervello ha una formidabile capacità di rinnovarsi. Se uno lo ha mantenuto in funzione e non è stato colpito da una malattia degenerativa, quel cervello non differenzia di molto da quando era giovane.

Professoressa un consiglio ai giovani per come affrontare le prove che li attendono?

È una domanda molto impegnativa, posso dire solo come ho vissuto io: completo disinteresse per se stessi e completo interesse verso gli altri e ai problemi che ci circondano. Evitare le catene senza ritorno come la droga, la criminalità, ma ancora di più il potere sia economico che di prestigio.



Spiccano la chiarezza e sicurezza di come organizzare la propria vita già a vent'anni senza alcun indugio,e l'averla interpretata senza ripensamenti o nostalgie guardandosi alle spalle.

I consigli alle nuove generazioni sono effettivamente gli unici possibili,in un periodo nel quale anch'essa avrebbe avuto più difficoltà rispetto al suo tempo,nonostante l'aver trascorso l'infanzia e una fase importante dei suoi primi anni tra due guerre mondiali,con la preoccupazione aggiuntiva d'essere d'origine ebrea.

per eventuali notifiche - iserentha@yahoo.it

Nessun commento: