Con questa equazione
solleveremo il mondo

Natura più tecnologia più regolamentazione uguale prosperità: la ricetta di Nemat Shafik per battere la fame e contrastare il terrorismo
ANNA MASERA
TORINO
La geografia globale della povertà sta cambiando e con essa cambiano gli aiuti allo sviluppo, nella convinzione che la cooperazione possa «risolvere molti dei conflitti nel mondo». Ne è convinta Nemat Shafik, segretario permanente dell’agenzia per gli aiuti allo sviluppo del governo britannico, che offre ben 15 miliardi di dollari l’anno a 100 Paesi in via di sviluppo, tra organizzazioni internazionali, programmi accademici e progetti della società civile. La signora Shafik, egiziana cresciuta negli Usa, laureata a Oxford, è stata a lungo vice presidente della Banca Mondiale. Le abbiamo parlato ieri in occasione della sua visita a Torino dopo la lezione alla Fondazione Einaudi, l’ottava della serie Luca d’Agliano finanziata dalla Compagnia di San Paolo (www.dagliano.unimi.it).
Secondo Obama le società più povere forniscono terreno fertile non solo per le malattie, ma anche per il terrorismo e le guerre. Invece proprio questa settimana The Economist sostiene che ridurre la povertà non riduce il terrore nel mondo. Chi ha ragione?«È vero che i terroristi non provengono necessariamente dai ceti più poveri, anzi spesso sono addirittura istruiti, ma se si alleviano i problemi economici che affliggono la società civile di un Paese povero, è indubbio che diventa un terreno meno fertile per i conflitti, lo ammette pure l’Economist. E mi sembra azzeccata la formula di Paul Collier, l’economista di Oxford esperto di Africa: natura meno tecnologia più regolamentazione (nel senso di «buona governance») uguale fame; natura meno tecnologia meno regolamentazione uguale ingiustizia; ma natura più tecnologia più regolamentazione uguale prosperità».
Come sta cambiando la mappa degli aiuti allo sviluppo? E di quanti soldi stiamo parlando?«L’industria globale degli aiuti vale 170 miliardi di dollari. Tanto per avere un termine di paragone, una guerra, una sola, in media costa 60 miliardi di dollari. Man mano che l’Asia emerge dalla povertà, questi fondi si concentrano in Africa. E una fetta sempre più importante degli aiuti sarà diretta alla tutela dei beni pubblici globali, dalla salvaguardia contro i cambiamenti climatici alla prevenzione dei conflitti, alla salute pubblica. In futuro, le sfide globali saranno sempre più affrontate attraverso coalizioni internazionali che comprendono anche il settore privato e la società civile».
Nell’era di Internet, la richiesta di trasparenza e la partecipazione della società civile alla cosa pubblica sono ormai all’ordine del giorno. Anche nella cooperazione?«Sì, senza via di ritorno. E grazie a Internet l’Africa non è esclusa dal mondo: con i telefonini a basso costo connessi in Rete si può ottenere il microcredito, accedere alle scuole a distanza, avere la propria cartella medica sempre a portata di mano, informarsi sui prezzi agricoli per partecipare alle aste online. Ma siamo ancora in alto mare: oggi nell’Africa subsahariana il 51% vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Eppure, in numeri assoluti, la maggioranza dei poveri vive in paesi a reddito medio: solo in India ce ne sono 456 milioni, più dei 387 milioni in Africa. I paesi emergenti continueranno a crescere ai tassi attuali, solo gli africani continueranno a essere in gran parte poveri».
Le organizzazioni non governative (Ong) sono utili? Sono diventate un’infinità...«Sì. E c’è un insieme crescente di nuovi organismi multilaterali: come per esempio il Fondo globale contro l’Aids, tbc e malaria, che unisce le forze di molti Paesi per un obiettivo specifico».
Non c’è il rischio di una duplicazione inefficiente degli sforzi e di una dissipazione delle risorse?«Per evitarlo serve più competizione, con test rigorosi di nuove idee e proposte, la possibilità di sperimentare, imparare e anche fallire: per esempio, lo fa l’iniziativa www.aidtransparency.net».
Sono cambiati i donatori?«Rispetto agli Anni Settanta, quando i tre quarti degli aiuti globali erano stanziati in modo bilaterale da Usa, Gran Bretagna e Francia, oggi i Paesi donatori sono oltre cinquanta. Grande assente l’Italia».
Il governo italiano dice che non ha fondi per via della crisi economica.«Quella c’è per tutti, eppure le donazioni complessive sono cresciute del 35% dal 2004, nonostante la recessione. In compenso crescono gli aiuti dai Paesi emergenti, soprattutto dalla Cina, che mescola obiettivi commerciali con l’idea di beneficio reciproco».
Per esempio?«In Africa, molti sono attratti dal modello cinese di capitalismo statale. L’Etiopia dà più importanza alla crescita che alla democrazia».
Questo non fa ben sperare...«Io sono ottimista. Intanto, in Africa bisogna raggiungere gli obiettivi di sviluppo del millennio. Poi, anche la Cina cambierà».
La geografia globale della povertà sta cambiando e con essa cambiano gli aiuti allo sviluppo, nella convinzione che la cooperazione possa «risolvere molti dei conflitti nel mondo». Ne è convinta Nemat Shafik, segretario permanente dell’agenzia per gli aiuti allo sviluppo del governo britannico, che offre ben 15 miliardi di dollari l’anno a 100 Paesi in via di sviluppo, tra organizzazioni internazionali, programmi accademici e progetti della società civile. La signora Shafik, egiziana cresciuta negli Usa, laureata a Oxford, è stata a lungo vice presidente della Banca Mondiale. Le abbiamo parlato ieri in occasione della sua visita a Torino dopo la lezione alla Fondazione Einaudi, l’ottava della serie Luca d’Agliano finanziata dalla Compagnia di San Paolo (www.dagliano.unimi.it).
Secondo Obama le società più povere forniscono terreno fertile non solo per le malattie, ma anche per il terrorismo e le guerre. Invece proprio questa settimana The Economist sostiene che ridurre la povertà non riduce il terrore nel mondo. Chi ha ragione?«È vero che i terroristi non provengono necessariamente dai ceti più poveri, anzi spesso sono addirittura istruiti, ma se si alleviano i problemi economici che affliggono la società civile di un Paese povero, è indubbio che diventa un terreno meno fertile per i conflitti, lo ammette pure l’Economist. E mi sembra azzeccata la formula di Paul Collier, l’economista di Oxford esperto di Africa: natura meno tecnologia più regolamentazione (nel senso di «buona governance») uguale fame; natura meno tecnologia meno regolamentazione uguale ingiustizia; ma natura più tecnologia più regolamentazione uguale prosperità».
Come sta cambiando la mappa degli aiuti allo sviluppo? E di quanti soldi stiamo parlando?«L’industria globale degli aiuti vale 170 miliardi di dollari. Tanto per avere un termine di paragone, una guerra, una sola, in media costa 60 miliardi di dollari. Man mano che l’Asia emerge dalla povertà, questi fondi si concentrano in Africa. E una fetta sempre più importante degli aiuti sarà diretta alla tutela dei beni pubblici globali, dalla salvaguardia contro i cambiamenti climatici alla prevenzione dei conflitti, alla salute pubblica. In futuro, le sfide globali saranno sempre più affrontate attraverso coalizioni internazionali che comprendono anche il settore privato e la società civile».
Nell’era di Internet, la richiesta di trasparenza e la partecipazione della società civile alla cosa pubblica sono ormai all’ordine del giorno. Anche nella cooperazione?«Sì, senza via di ritorno. E grazie a Internet l’Africa non è esclusa dal mondo: con i telefonini a basso costo connessi in Rete si può ottenere il microcredito, accedere alle scuole a distanza, avere la propria cartella medica sempre a portata di mano, informarsi sui prezzi agricoli per partecipare alle aste online. Ma siamo ancora in alto mare: oggi nell’Africa subsahariana il 51% vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Eppure, in numeri assoluti, la maggioranza dei poveri vive in paesi a reddito medio: solo in India ce ne sono 456 milioni, più dei 387 milioni in Africa. I paesi emergenti continueranno a crescere ai tassi attuali, solo gli africani continueranno a essere in gran parte poveri».
Le organizzazioni non governative (Ong) sono utili? Sono diventate un’infinità...«Sì. E c’è un insieme crescente di nuovi organismi multilaterali: come per esempio il Fondo globale contro l’Aids, tbc e malaria, che unisce le forze di molti Paesi per un obiettivo specifico».
Non c’è il rischio di una duplicazione inefficiente degli sforzi e di una dissipazione delle risorse?«Per evitarlo serve più competizione, con test rigorosi di nuove idee e proposte, la possibilità di sperimentare, imparare e anche fallire: per esempio, lo fa l’iniziativa www.aidtransparency.net».
Sono cambiati i donatori?«Rispetto agli Anni Settanta, quando i tre quarti degli aiuti globali erano stanziati in modo bilaterale da Usa, Gran Bretagna e Francia, oggi i Paesi donatori sono oltre cinquanta. Grande assente l’Italia».
Il governo italiano dice che non ha fondi per via della crisi economica.«Quella c’è per tutti, eppure le donazioni complessive sono cresciute del 35% dal 2004, nonostante la recessione. In compenso crescono gli aiuti dai Paesi emergenti, soprattutto dalla Cina, che mescola obiettivi commerciali con l’idea di beneficio reciproco».
Per esempio?«In Africa, molti sono attratti dal modello cinese di capitalismo statale. L’Etiopia dà più importanza alla crescita che alla democrazia».
Questo non fa ben sperare...«Io sono ottimista. Intanto, in Africa bisogna raggiungere gli obiettivi di sviluppo del millennio. Poi, anche la Cina cambierà».

Pare un progetto difficile da praticare,poichè i fondi stanziati dai paesi più ricchi,con la vergognosa esclusione dell''Italia,capitolo a parte su tutto,ormai! Risulta problematico poterli gestire in modo efficace,potrebbe essere però,la rivincita dell'uomo occidentale nel terzo millennio,considerati gli sconquassi creati sino ad ora.
@ Dalida @
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