venerdì 16 aprile 2010

La formula 1 in Malesya con i ragazzini sfruttati nel paddock



di Marco Mensurati

Mong e i piccoli sfruttati della F1 fantasmi tra i milionari del paddock

L’altra faccia del Gp di Malesia è un bambino di tredici anni che senza scarpe e a mani nude pulisce gabinetti per 10 ore al giorno in cambio di una paga ridicola. Si chiama Mong, viene dal Bangladesh.


L’altra faccia della Formula 1 è un bambino di tredici anni che senza scarpe e a mani nude pulisce gabinetti per dieci ore al giorno in cambio di una paga ridicola. Si chiama Mong, viene dal Bangladesh. E questo è il lavoro più strano che gli sia capitato da quando ha cominciato a fare i servizi per l’Agenzia. Passa le sue giornate in uno dei luoghi più esclusivi, inaccessibili e ricchi dello sport mondiale: il paddock della Formula 1, il cuore pulsante dell’automobilismo. A pochi centimetri da lui, sfiorandolo distratti, passano tutti quanti: il grande boss della F1 Bernie Ecclestone e i suoi uomini, Alonso, Schumacher e gli altri piloti con i loro manager e i loro clan sterminati, le modelle a caccia di miliardari, i dirigenti delle compagnie petrolifere e degli sponsor, i giornalisti, i fotografi, gli ingegneri, i meccanici.

Tutta gente che viene dall’Europa o dall’America, da posti in cui la storia di Mong verrebbe catalogata come “sfruttamento del lavoro minorile” e non come “normalità”, come invece capita qui. Lui guarda tutte queste persone, senza sorridere, con la faccia di chi considera un insieme e non una moltitudine. Poi racconta la sua storia. Una storia breve, perché non parla l’inglese.

“Mi chiamo Mong, vengo dal Bangladesh, ho tredici anni, lavoro qui nei bagni dalla mattina alla sera, e mi pagano quindici ringgit al giorno”. Quindici ringgit sono meno di tre euro. Al collo ha il pass verde che portano tutti i dipendenti, in testa il cappellino azzurro con scritto “Cleaning Service” sotto il logo rosso fiammante del “Sepang International Circuit”, una camicia azzurra un po’ lisa e in faccia un’espressione troppo seria. Il suo maleodorante posto di lavoro è a una manciata di metri dall’accogliente hospitality della Toro Rosso, tutta acciaio e vetro brillante, proprio alle spalle dei box.

Sono le due di pomeriggio di venerdì, ed è appena partita la seconda sessione delle prove libere del Gp di Malesia, terza tappa del mondiale, quando la macchina di Buemi accelera, il rombo è talmente forte che tutti sono costretti a mettersi i tappi alle orecchie. Mong usa le dita perché i tappi l’agenzia non glieli ha dati, e improvvisamente sorride, dice qualcosa nella sua lingua, poi, appena Buemi si allontana, continua in inglese: “Qui siamo in molti del Bangladesh e lavoriamo tutti per la stessa agenzia di Kuala Lumpur, è lei che ci manda in giro a lavorare”.

Si guarda intorno con una certa circospezione, l’impressione è che abbia paura che qualcuno lo possa vedere mentre parla con degli estranei. E infatti, pochi secondi dopo, da non si sa dove, spunta fuori una ragazza, avrà si e no vent’anni, è vestita allo stesso modo di Mong, ma ha alla cintura una radiolina. È il capo. Il ragazzino la vede e sparisce, lasciando nell’aria la sensazione che non sia lui l’unico bambino arruolato dalla Formula 1.

E infatti basta farsi un giro per il paddock cercando di guardare in faccia questi lavoranti con la camicia azzurra e il cappellino del circuito per scoprire che come Mong ci sono almeno un’altra decina di ragazzini. Sono quasi tutti addetti alle pulizie dei bagni (tranne quello riservato alla stampa che invece è custodito da due anziane signore) o alla piccola discarica che serve il “paddock”, un piccolo esercito di fantasmi umani, ignorati per tutto il tempo dai ben più patinati frequentatori del paddock.

Leggendo una delle ultime relazioni di Amnesty International si scopre che il fenomeno dei baby lavoratori da queste parti è piuttosto diffuso, e qua e là si incontrano le testimonianze di alcuni baby lavoratori “importati” in Malesia da adolescenti: “Siamo entrati nel paese aiutati da un’agenzia di reclutamento che ci ha fornito documenti falsi – racconta una ragazzina di quindici anni – Nel mio caso, sul passaporto c’era scritto che ne avevo 22″.

Il dubbio che le storie di questi ragazzini in camicia azzurra siano simili a quella raccontata da Amnesty si alimenta quando, lontano dalla ragazza con la radiolina, Kazi, un ragazzino paffuto, collega di Mong, racconta: “Siamo arrivati qui dal Bangladesh, eravamo una decina, e l’agenzia ci ha mandato subito a lavorare”. Poi, davanti alla domanda più importante, quanti anni hai?, si ferma un istante. “Diciotto”, dice tutto sicuro. Poi scoppia a ridere.

[ da La repubblica ]

A parte l'insensibilità aggiunta di non fornire perlomeno dei tappi per le orecchie a questi ragazzini,sfruttati per pochi soldi,il giornalista artefice dell'articolo ha chiesto direttamente a Ecclestone come mai ci fossero dei minorenni sfruttati dalla pomposa federazione della formula 1,laconicamente e indispettito ha risposto che sono i genitori stessi ad affidarli per questo tipo di mansioni.

Sicuramente per i prossimi G.P. il giornalista della Repubblica non sarà tanto gradito da quel mondo,essersi immischiato e denunciato la deplorevole pratica,è un timbro che non dimenticheranno.

&& S.I. &&

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